L’impianto della riforma costituzionale più importante degli ultimi sessant’anni è sotto attacco. Vi era, in origine, un disegno razionale, nelle sue travi portanti: tutti d’accordo sulla necessità di riformare il bicameralismo perfetto, inutilmente ripetitivo, pletorico quanto a numero di parlamentari, sordo alle istanze dei territori, fattore di debolezza del governo, costretto a passare due volte dal Parlamento per perseguire con legge l’attuazione dell’indirizzo politico. La soluzione? Il Senato delle Regioni, rappresentante delle istituzioni regionali (i Consigli, legislatori al pari del Senato stesso) e non più dei territori. Un Senato di 100 componenti, depotenziato rispetto alla fiducia al Governo, con meno poteri (ma non esigui) eppure presente tramite i rappresentanti regionali chiamati a dar voce agli interessi delle Regioni (e anche, in modo più sommesso, ai Comuni).



Per diatribe politiche interne al partito del premier, ora tocca prendere posizione daccapo sul disegno nel suo complesso, visto che tornare a parlare di elezione diretta modifica sensibilmente (e forse anche inutilmente) il quadro, riproponendo un disegno non dissimile dal bicameralismo paritario. In caso di successo della politica Renzi-Madia si profila una crisi politica e di governo che nessuno auspica mentre, in caso di vittoria delle opposizioni, il prezzo sarà il rinvio sine die della riforma costituzionale, preludio ad un indebolimento del governo per non essere stato in grado di dimostrare al Paese la sua forza nel generare innovazione costituzionale, la massima innovazione che tutti si augurano come prova del nove della rinascita del Paese.



Sul piano tecnico, il ritorno all’elezione diretta non convince; si possono — è vero — ipotizzare cambiamenti di minor portata, molti dei quali anche interessanti ed opportuni (un ritorno al disegno del 2014, con un Senato più forte dell’attuale (Mangiameli) o l’attribuzione alle delegazioni regionali in Senato dell’obbligo di voto unitario (Onida sul Corriere); e tuttavia lo stravolgimento del disegno determinato dall’elezione diretta avrebbe come conseguenza la necessità di mettere mano a molti aspetti del progetto, con tempi difficili da prevedere per giungere ad un risultato definitivo.



E, ancora, questi ripensamenti radicali destano sospetti, visto che in passato altre sono state le linee prevalenti (e per ben tre passaggi parlamentari!). Alla fine, un cambiamento di tale portata all’ultimo miglio è sintomo di una classe politica che fa battaglie con tutti gli strumenti a disposizione, compresi i processi di riforma costituzionale, dove dovrebbero invece prevalere scelte tecnicamente ineccepibili e politicamente condivise.

E se di emendamenti si dovrà parlare, forse la soluzione del listino può essere utile ad uscire dall’empasse, una soluzione tecnicamente accettabile per il fatto di lasciare un margine di scelta agli elettori — agli elettori, si badi bene, e non alle segreterie del partiti (i.e. con un listino a preferenze e non bloccato) — senza affossare un disegno costituzionale tutto sommato e nelle sue grandi linee relativamente razionale.