Sulla riforma costituzionale che adesso è all’esame del Senato si stanno concentrando tutte le tensioni di questa legislatura già così eccezionale per tanti aspetti.  

Sul versante delle istituzioni, l’impetuoso avvento del M5s, il “quasi pareggio” del risultato elettorale tra i due partiti che aspiravano a rappresentare le forze concorrenti al governo del Paese, hanno avviato al tramonto il bipolarismo sviluppatosi nell’ultimo quarto di secolo. Di ciò è chiara testimonianza il fragoroso sgretolamento avviatosi su entrambi i fronti con destini assai incerti. Il sistema ha sì retto, ma utilizzando risorse certo non ordinarie. Prima con la rielezione di Napolitano, poi con il governo Letta destinato a salvare quanto restava del vecchio bipolarismo, e quindi con l’avvento di Renzi a seguito di un’imprevista crisi di governo provocata dal travolgente esito delle primarie indette dal partito di maggioranza relativa.  



L’attuale governo, come noto, si sostiene a stento in Senato, e, seguendo l’esempio proprio dei governi di emergenza, si muove per lo più a colpi di decreti-legge, maxi-emendamenti e questioni di fiducia. La positiva conclusione della riforma costituzionale proposta dal Governo, tra l’altro, è espressamente considerata dallo stesso esecutivo come condizione essenziale per il proseguimento della legislatura. Mai ciò è avvenuto in passato e per di più con riferimento ad una riforma costituzionale “di sistema”. Mai il potere presidenziale di scioglimento anticipato è stato sottoposto a così manifesta pressione da parte del Governo.



Sul versante economico, il Paese si colloca sempre più in una posizione di difficilissimo equilibrio, il cui controllo sembra sfuggire non solo alle autorità nazionali, ma anche alle classi dirigenti tutte. A quale sviluppo puntiamo? e in quali settori? e con quali risorse? Sul versante europeo ed internazionale, il progetto di integrazione centrato sulla moneta unica si scontra con il conflitto sempre più aspro tra gli interessi nazionali degli Stati membri, ricordando, sotto altra veste, “guerre di posizione” che da secoli si agitano sul suolo europeo. Il ruolo dell’Italia si è rapidamente appannato circa i punti essenziali da considerare: le frontiere meridionali, l’approvvigionamento energetico, i mercati cui rivolgersi, gli equilibri da mantenere o modificare. Per non parlare poi dei drammatici sviluppi dei flussi migratori, con tutto ciò che ne consegue sul piano assistenziale e finanziario. I livelli di tutela offerti dagli strumenti di protezione sociale — dalla salute alla previdenza — appaiono precari e destinati al progressivo depauperamento.  



Innanzi a tutto ciò, occorre chiedersi se la “risposta costituzionale” adesso all’esame del Senato appare adeguata alle sfide presenti e future. A ben vedere, non si tratta solo della riforma della seconda parte della Costituzione, ma dell’esito combinato tra le modifiche costituzionali proposte, la nuova legge elettorale della Camera, che diverrà operativa dal 1° luglio del 2016, e la diffusa debolezza degli altri poteri che interagiscono nella nostra forma di governo, a partire dal Parlamento e dai partiti ivi rappresentati in misura ormai largamente non corrispondente a quanto risulta nell’opinione pubblica. 

Soprattutto appare forte lo scarto tra i propositi manifestati e gli strumenti predisposti. E’ difficile ritenere che il regime parlamentare si possa allo stesso tempo semplificare e rafforzare a partire da quanto si propone. La formazione delle leggi sarà frazionata in una pluralità di procedimenti e sub-procedimenti capaci di innescare conflitti e contenziosi ben più gravi dell’attuale navette tra le due Assemblee dotate di pari poteri. Altrettanto imprecisato è il ruolo del Senato, che, costituito da designati “dai” Consigli regionali, facilmente si potrebbe trasformare in un Cnel di nuovo conio. Che poi il Senato diventi espressione della volontà delle Regioni, nel momento stesso in cui si intende ridurre fortemente l’autonomia politica di queste ultime, appare un’ulteriore contraddizione, tanto più se si considera che le Regioni non hanno certo brillato nel panorama istituzionale. 

Verso quale sistema si intende andare? A chi spetterà la parola ultima nell’adozione delle decisioni politiche? Le nuove disposizioni costituzionali dicono, in particolare, che il Governo dovrà avere la fiducia della sola Camera, che la volontà della Camera, nella maggior parte dei casi, prevarrà su quella del Senato e che, a determinate condizioni, il Governo potrà imporre alle Assemblee di decidere entro tempi predeterminati. In sostanza, però, il senso effettivo della riforma scaturirà dall’intrecciarsi tra il meccanismo elettorale della Camera — non vincolato da alcuna disposizione costituzionale, ma soggetto, come recentemente acquisito, alla giurisdizione della Corte costituzionale — e il combinarsi tra il quadro politico-partitico e le prassi che daranno attuazione alle scarne, ed immutate, disposizioni sul Governo e sul Capo dello Stato, ad esempio in tema di controfirma o di scioglimento anticipato. 

Non sorprende che innanzi alle tante obiezioni si risponda con il solito refrain: meglio apportare qualche novità che restare immobili. A ciò può ben replicarsi che di tutte le modifiche costituzionali apportate, ben poche hanno dimostrato esiti migliori della disciplina sostituita. Che fine ha fatto, ad esempio, la riforma dell’art. 111 Cost. sul giusto processo, che è rimasta praticamente lettera morta? Oppure possiamo essere soddisfatti dalla presenza della “Circoscrizione estero” nelle elezioni del Parlamento? Cosa ha significato dal 2001 l’eliminazione dell’interesse nazionale quale limite dell’autonomia regionale, se non accrescere il potere interdittivo dei potentati locali? E quali sono stati gli effetti della disciplina sulla ripartizione delle funzioni amministrative tra Stato, Regioni e enti locali, come voluto sempre nella riforma del 2001, se non dare luogo ad un meccanismo à la carte dagli esiti imprevedibili, come dimostrato dalla legge Delrio che ne ha dato recentissima attuazione?

Insomma, dopo tanti anni di studi, dibattiti, commissioni di studio, audizioni e così via, non solo il risultato alle porte appare per più aspetti discutibile, ma soprattutto il potere “in senso materiale” — cioè la decisione politica nel suo concreto determinarsi — sarà dislocato sempre più al di fuori del dettato costituzionale, ovvero nella legge elettorale, nelle prassi e nell’organizzazione dei partiti. 

Ecco perché la questione del Senato elettivo, tornata di attualità, tanto più se sovrapposta con la richiesta di tornare sulla legge elettorale della Camera, è la cartina al tornasole di una questione ben più complessa. Modificare questi due punti vuol dire scardinare il senso effettivo del percorso riformatore che tiene in vita il Governo Renzi, e puntare a nuovi equilibri politici ed istituzionali. Non rendersene conto, e confrontarsi come se il dibattito sulla riforma costituzionale fosse soltanto una prova di forza tra innovatori e conservatori, vuol dire nascondere la verità agli italiani.