O la va o la spacca. Settembre sarà il mese della verità per Matteo Renzi. I nodi stanno per venire al pettine, e saranno tantissimi. All’orizzonte del governo si profila un ingorgo parlamentare senza precedenti. Una sfida tutta politica che, se non dovesse essere vinta, porterebbe dritto dritto alle elezioni anticipate.



Che l’eventualità non sia peregrina lo dimostra una pluralità di segnali. Delle urne nell’entourage del premier si parla apertamente da settimane, ma l’inner circle renziano  sembra diviso quasi in parti uguali fra favorevoli e contrari. Che lo stesso Renzi prenda in seria considerazione l’ipotesi è dimostrato però anche dai suoi impegni pubblici. Un anno fa disertò sia il Meeting di Rimini, sia il convegno Ambrosetti di Cernobbio. Quest’anno, dopo il discorso al popolo di Cl si prepara a tenerne un altro, che si preannuncia non meno importante, al gotha della finanza italiana riunito, come vuole la tradizione, sulle rive del lago di Como nel primo week-end di settembre. Sul programma la presenza del premier è ancora “da confermare”, ma è data praticamente per certa. E in mezzo, fra Rimini e Cernobbio, l’avvio da Pesaro del tour dei cento teatri per spiegare le realizzazioni del governo. Prove tecniche di campagna elettorale, insomma.



Dalla prima settimana di settembre, intanto, si torna a battagliare in parlamento, prima nelle commissioni, poi in aula, su una fittissima agenda di argomenti cruciali. Dicono i bene informati che nessuna decisione sia stata ancora presa, e che molto dipenderà dalle circostanze. Se la minoranza democratica troverà il coraggio di sbarrare per davvero la strada al disegno di legge Boschi di riforma della Costituzione l’effetto sarà immediato e duplice: scissione nel Pd ed elezioni anticipate. Ma si tratta solo dell’extrema ratio. 

Pare che il premier vada ripetendo da giorni lo stesso ragionamento che suona più o meno così: non hanno i numeri, non hanno un progetto alternativo e in più — o forse soprattutto — non hanno un leader. Né leader credibili e a lui alternativi possono essere considerati Massimo D’Alema e Romano Prodi, che non hanno lesinato negli ultimi giorni punture di spillo a Palazzo Chigi, ma che dal quartier generale renziano vengono considerati poco più che fastidiosi rimasugli del passato.



Il futuro è però irto di ostacoli, anche perché la politica dei rinvii praticata prima dell’estate ha fatto sì che i problemi si accatastassero in parlamento uno sull’altro. Non solo le riforme, ma anche le unioni civili su cui frenano i centristi, la riforma dell’ordinamento giudiziario con annesso il tema sempre rovente delle intercettazioni telefoniche, la Rai, la riforma della cittadinanza, quella della rappresentanza sindacale, con le tre maggiori confederazioni già sulle barricate. 

Il terreno più delicato rischia però di essere quello della legge di stabilità. Nelle intenzioni del premier dovrebbe essere il tassello centrale della spinta per il rilancio dell’economia. Ma quanto l’impresa sia difficile si è visto proprio a Rimini, quando Renzi ha promesso un sensibile taglio della pressione fiscale e il suo ministro Padoan giusto 24 ore dopo ha spento sul nascere ogni entusiasmo, spiegando che la riduzione ci potrà essere, ma solo in presenza di corrispondenti tagli alla spesa pubblica. Prudenza, quindi, anche perché scossoni sui mercati internazionali come quello partito dalla Cina in pieno agosto con il crollo della borsa di Shangai non possono far dormire a nessuno sonni tranquilli. Men che meno a un’economia traballante come quella italiana.

Renzi cerca 25/30 miliardi per smuovere il quadro economica nazionale, e non si tratta affatto di un’impresa facile. Sullo sfondo rimane la spada di Damocle di corpose clausole di salvaguardia pronte a scattare dal primo gennaio prossimo, se non si troveranno fondi in altro modo. Aumenti dell’Iva e delle accise sui carburanti, che sarebbero una iattura per l’Italia produttiva e bisognerebbe evitare. 

La cruna dell’ago attraverso cui Renzi e il suo governo sono costretti a passare sembra quindi davvero stretta. Il rischio dell’incidente rimane sempre alto, ma in fondo dovranno essere i suoi oppositori, interni ed esterni al Pd, a prendersi la responsabilità di staccare la spina al governo. In quel caso a lui rimarrà l’arma propagandistica di rovesciare la responsabilità della crisi dell’esecutivo sui quella parte di Pd che avrà scelto di voltargli le spalle. 

In fondo, il premier non crede che ne avranno il coraggio, e nutre abbastanza fiducia di poter superare questa strettoia. Se così non fosse, si tiene pronto al peggio, qualunque sia la legge con la quale si andrà al voto, persino con quel tanto vituperato “consultellum” che renderebbe indispensabili alleanze parlamentari il giorno dopo il voto, essendo un proporzionale puro e senza quel premio di maggioranza previsto nell’Italicum, che entrerà in vigore solo il 1° luglio del prossimo anno.