“O governa o va a casa”! Questa frase lapidaria, che Matteo Renzi ha rivolto al sindaco Ignazio Marino e al presidente Rosario Crocetta, certamente farà bella mostra nei libri di storia che molto presto Renzi chiederà di scrivere per lasciare imperitura memoria del suo governo.
Così, dopo quelle forse più celebri di Cesare, di Napoleone o di Garibaldi, potremo anche ricordare… Che cosa? Il nulla, perché questo motto, che forse nelle intenzioni doveva rappresentare una sorta di imperativo categorico, grazie alla sua vacuità sta garantendo a Roma come a Palermo di continuare a navigare come se nulla fosse, malgrado la tempesta nella quale si trovano i due comandanti.
Eccone la verifica con quanto accade a Palermo.
Innanzitutto, va chiarito che il verbo governare non ha un contrario. Il non governo non esiste, perché chi è stato scelto o eletto per governare una nazione come un condominio, una multinazionale come una cooperativa sportiva, governa in ogni caso, anche quando afferma il contrario, anche la domenica quando gli uffici sono chiusi e non si possono compiere atti amministrativi, anche quando è all’estero o quando dorme. La Santa Sede, che di governo se ne intende da secoli, certo più di Renzi, ha previsto l’istituto della Sede vacante quando, morto il papa, si attende che se ne elegga un altro. Ma il governo è garantito, seppur come si dice in termini tecnici, per “gli affari correnti”.
Quindi la questione non è stabilire se chi è stato eletto per governare governa o non governa, quanto se governa bene o male. Questo compito spetta in democrazia agli elettori alla fine del mandato.
Ma quando è opinione ampiamente condivisa e palese, come in Sicilia, che il presidente eletto governa così male da arrecare un danno ai cittadini, sia a quel 12% che lo ha votato sia a tutti gli altri che non lo hanno votato, bisogna attendere impotenti ancora due anni e mezzo perché si concluda il suo mandato o si può intervenire prima, per evitare un male ulteriore?
E qui torna l’imperativo categorico di Renzi: Crocetta a casa! E se Crocetta non vuol andare a casa, come ha ampiamente affermato e dimostrato, che si fa? Nei giorni scorsi, dopo il can can mediatico che ha portato la Sicilia e le sue vere o presunte intercettazioni alla ribalta della stampa internazionale, sembrava cosa fatta. Ma Crocetta è entrato in Assemblea Regionale da sconfitto e ne è uscito, tra gli applausi di chi lo voleva “licenziare”, vincitore. Perché?
Perché il nostro sistema democratico prevede due istituti per intervenire in un caso così clamoroso. Primo, quello delle dimissioni, e Crocetta lo ha detto una sola volta in questi mesi quando ha affermato: “Se il Pd lo vuole, me le chieda”, ma il Pd si è guardato bene dal chiederlo, e lui ovviamente non l’ha fatto.
Secondo, quello della messa in minoranza con un voto dell’assemblea; ma l’Ars si guarda bene dal farlo, perché andrebbero a casa anche i 90 attuali deputati (qualche mese fa fu presentata una mozione di sfiducia e il risultato sembrava raggiunto, ma grazie a qualche alchimia assembleare, a qualche momentaneo cambio di casacca, e a qualche assenza improvvisa in aula, non si raggiunse il numero necessario di voti, ndr).
E allora Renzi cosa invoca? Invoca il nulla, cioè che al di là dei proclami delle sue frasi lapidarie, non accada nulla perché occorre ancora tempo, tempo perché maturino “i tempi politici”. E così coloro che fino ad una settimana fa hanno invitato a gran voce a “staccare la spina” (ma chi avrebbe dovuto prendere in mano il filo non si è mai né detto né saputo) oggi si sono trasformati in novelli Fabio Massimo, il famoso temporeggiatore, i quali con nuovo e insospettabile vigore hanno ripreso a sostenere Crocetta e il suo Governo, che continua a governare, in attesa di nuove verifiche e nuove scadenze.
La verifica si è avuta in due importanti riunioni, svoltesi nei giorni scorsi: l’assemblea regionale dei democratici e la successiva riunione dei partiti che sostengono sulla carta (in Ars sono certamente di più) il governo. Nella prima, la frase più ripetuta è stata: “O si governa o si va a casa”, ma il segretario regionale Fausto Raciti ha chiarito espressamente che la pratica non va affrontata “mettendo una data di scadenza a questa legislatura”. Nella seconda il segretario regionale dell’Udc, Gianpiero D’Alia, a un certo punto ha affermato: “Il passato è passato”. Come a dire, “mettiamoci una pietra su e andiamo avanti”, noncuranti di quanto accaduto e di quanto può ancora accadere.
Invocando una frase celebre e adattandola al nostro caso si può tranquillamente affermare: “Uno spettro si aggira per la Sicilia… e non solo in Sicilia: la paura delle elezioni”.
Questo il vero motivo del rinnovato patto di amore e fedeltà, dentro il Pd siciliano, salvo le affermazioni di dissenso che non producono mai decisioni contrarie, tra i leader della maggioranza, pronti a continuare come ci si trovasse all’inizio della legislatura, e tra i 90 deputati dell’Ars, pronti anche a legiferare, dopo mesi di stanca, forti di un interesse trasversale che lega tutti, purché non si vada a casa.
Perché tanta paura delle elezioni in un sistema democratico che a parole tutti sostengono perfetto, perché fondato sull’alternanza? Perché il vero spettro che si aggira non in Sicilia, ma nelle stanze delle segreterie dei partiti, è quello della presunta, temuta, reale vittoria dei grillini. Questa paura attanaglia tutti, a Roma come a Palermo, e impedisce qualunque movimento possa andare in quella direzione: tranne lo stare fermi, il temporeggiare, l’attendere.
Dei tanti scenari ipotizzati due sembrano i più verosimili.
Primo. Andare al voto in Sicilia il più presto possibile, al fine di limitare al minimo i danni di una sconfitta del Pd e dei suoi alleati, prima che si voti a livello nazionale e l’effetto trascinamento coinvolga anche quelle elezioni (non bisogna dimenticare che in Sicilia votano circa 4,5 milioni di elettori, che — come si dice in gergo — fanno numero).
Secondo. Andare al voto in Sicilia il più tardi possibile nella speranza di recuperare parte dell’elettorato perduto e limitare per quanto possibile una sconfitta per il Pd, che ad oggi sembra inevitabile.
Sia nel primo che nel secondo caso ci vogliono due altre cose per andare alle urne: un candidato in grado di prendere più voti dell’ipotetico candidato grillino e una reale o presunta maggioranza in grado di sostenerlo. I presidenti Lombardo e Crocetta hanno dimostrato che con le maggioranze variabili si può rimanere in sella senza avere i numeri in Ars. Basta cercarli volta per volta. Ma il tema del candidato credibile è il più difficile da risolvere. Non perché manchino i nomi. Ne sono già stati tirati fuori più di una decina, sempre dentro l’elenco dei politici noti e arcinoti, gli stessi che Renzi vorrebbe rottamare; ma tutti sanno, loro per primi, che avrebbero poche chance.
E dunque? Il Pd, dimentico dei successi e dei consensi avuti nei decenni scorsi facendo una saggia e avveduta opposizione anche in Sicilia, si ritiene, come presuntuosamente pensava la Dc, ormai “vocato per natura al governo”. Quindi deve cercare un candidato che pur credibile risponda comunque al partito: insomma, il rischio di un altro Crocetta che risponde al suo cerchio magico e non al Pd, non può più correrlo. I partiti della maggioranza attuale e futura, quella per cui si stanno facendo le prove generali a Roma (per intenderci l’ammucchiata al centro con guida Pd), in Sicilia è già a buon punto di maturazione. Potrebbe la Sicilia essere l’ennesimo laboratorio ove fare le prove generali? C’è chi lo spera e c’è chi lo teme. Ma il rischio è grosso e chi lo corre deve sapere che, se perde, i danni saranno per lui irreparabili, per almeno cinque anni. Una vittoria dei 5 Stelle se ci sarà, sarà clamorosa, e i contraccolpi nazionali saranno evidentissimi.
E allora, meglio attendere. Ma attendere cosa? Che tutto torni come prima. E così Crocetta dopo alcuni giorni di astinenza mediatica è tornato ad imperversare sia alla direzione nazionale del Pd che sulle reti nazionali per riaffermare il suo credo: prima di me il diluvio, e meno male che c’è Saro!
Togliendo quasi la parola a Renzi ha tentato di convincere il parlamentino Pd che “l’isola che non c’è” esiste davvero ed è la Sicilia di oggi. Quella in cui si sono fatte le riforme, si è tagliata la spesa pubblica, non è stato intaccato lo Stato sociale e l’occupazione non viaggia al 30%.
Tutto merito del suo governo infarcito di denunce quotidiane contro il malaffare e i tanti lavoratori corrotti, che pare si siano dati appuntamento quasi tutti in Sicilia, in grado di spendere i fondi europei (poco importa che fra spesa e impegno ci sia una certa differenza e che da quasi due mesi sia tutto bloccato), e di approvare il prossimo bilancio al quale pare manchino più di tre miliardi di euro.
E così siamo giunti d’amore e d’accordo alla fatidica settimana di Ferragosto. Al ritorno ritroveremo Crocetta che minaccia comportamenti esemplari per chi non lavora e nuovamente inviperito col governo nazionale che non costituisce in Sicilia un’unica zona franca. Idea tanto vecchia quanto irrealizzabile.
Prima di salutare tutti, c’è ancora un ultimo spettro da evocare: quello della bretella di pochi chilometri che i grillini siciliani, con soldi propri e maestranze locali, hanno approntato in meno di quaranta giorni per consentire un risparmio significativo di minuti per superare il blocco causato dal rischio di crollo sull’autostrada Palermo-Catania. In un tempo ben maggiore il Governo nazionale è riuscito, malgrado le promesse, solo ad appaltare i lavori della bretella necessaria per superare il blocco. Anche in questo caso le polemiche non mancano, giuste o sbagliate che siano.
Ma provate a chiedere alle centinaia di automobilisti che quotidianamente percorrono questa strada per chi voterebbero oggi. Forse la risposta è scontata. E di questo il Pd siciliano ha veramente paura.