Se la questione dell’art. 2 della riforma costituzionale dovesse condurre al ritorno al Senato elettivo, non si potrà certo utilizzare quel famoso detto secondo cui “per un punto Martin perse la cappa”; più correttamente dovrebbe dirsi “cosa fatta capo ha”.
Infatti, non è per una mera svista formale che, secondo le ultime indiscrezioni, si potrebbero rimettere in discussione le modalità di elezione del Senato, e con ciò stesso un elemento essenziale dell’intera riforma. Al contrario, ciò è il risultato di un emendamento presentato dallo stesso Governo ed approvato praticamente all’unanimità (con tre soli voti contrari) dalla Camera dei deputati. Più esattamente, è stata sostituita una preposizione articolata (“nei” con “dai”).
Adesso, il Governo chiederebbe di considerare sostanzialmente equivalente il testo attuale rispetto al precedente così impedendosi la votazione di ogni emendamento sul punto. Ma il presidente Grasso, cui spetta la decisione ultima, avrebbe finito per accogliere la soluzione contraria.
Del resto, se il Governo ha presentato alla Camera un emendamento su questo aspetto, vuol dire che intendeva modificare il senso della disposizione già approvata dal Senato, come in effetti è facilmente comprensibile ai più. Ritenere dunque che sul punto si sia determinato un doppio voto conforme di entrambe le Assemblee non solo è una contraddizione logica, ma è anche una patente forzatura politica nei confronti del presidente del Senato. Quest’ultimo sarebbe considerato come il responsabile “primo” di un’eventuale sconfitta del Governo, se non addirittura dell’eventuale crisi di governo che ne dovesse conseguire, sino all’ipotesi — già ventilata dallo stesso esecutivo — dello scioglimento anticipato.
Diversamente, è il Governo che dovrà intestarsi la responsabilità dell’esito finale, qualunque esso sarà. La diretta e piena conduzione del procedimento di revisione costituzionale che è stato, sin dal suo avvio, “a trazione governativa”, conferma quanto appena detto. Del resto, la sovraesposizione della figura del presidente del Senato è immediata conseguenza non solo della debole posizione assunta dal Governo sulla questione dell’art. 2, ma anche del dubbioso ruolo che la riforma riserva al Senato prossimo venturo. Non molti condividono l’impostazione del disegno di legge costituzionale che, in nome della semplificazione, moltiplica i procedimenti legislativi ed incrementa le possibili conflittualità tra le due Assemblee.
Allora, sarà facile leggere nella risposta del presidente del Senato sulla questione procedurale dell’art. 2 anche l’indicazione di una posizione assai più articolata e sostanziosa, rivolta ad assicurare alla Camera alta un ruolo istituzionale più correttamente delineato. A partire dalla composizione, che dovrebbe essere chiaramente riconducibile ad un determinato modello, cosa che ben difficilmente potrebbe essere garantita dalla soluzione compromissoria del cosiddetto listino. Sino alla definizione delle attribuzioni, attualmente per lo più confinate al concorso ad una pluralità di competenze genericamente indicate.
Se sarà la modifica di una preposizione a cambiare il destino del Senato rispetto a quanto sino ad ora prefigurato, non sarà tempo perso affrontare questo problema procedurale con la dovuta attenzione.