Lo svolgimento della “bicamerale” tra renziani e minoranza dem sembra destinato ad essere la classica lunga ed estenuante trattativa che si conclude con la rottura delle trattative. Certamente a ispirare fiducia in una conclusione positiva c’è l’evidente sponsorizzazione del capo dello Stato e del presidente del Senato. I supremi “arbitri” che sorvegliano dall’alto la situazione auspicano il varo della riforma costituzionale secondo “una maggioranza ampia e solida” e soprattutto evitando forzature quali il ricorso al voto di fiducia. Che il governo riscriva la Costituzione secondo un atto di disciplina rischia di essere un “vulnus” difficile da avallare da parte dei garanti della Costituzione. “I principi di una libera costituzione sono irrevocabilmente perduti, quando il potere legislativo è creato dal potere esecutivo”: queste parole che Edward Gibbon usava per descrivere decadenza e caduta dell’impero romano rispecchiano un pensiero condiviso sin dal XVIII secolo. 



Inoltre che il Senato sia o meno eleggibile non è mai stata l'”ultima spiaggia” né per Renzi né per Bersani. Nel merito un compromesso sarebbe ragionevolmente possibile. Ma è anche evidente che i dissidenti si sono impuntati sull’articolo 2 perché è l’unica (e probabilmente ultima) occasione per mettere in difficoltà il premier-segretario attraverso una convergenza trasversale dai 5 Stelle a Forza Italia, senza identità politica né programmatica, ma che su una questione di principio costituzionale mette in minoranza la proposta del governo.



La vera “posta in gioco” tra maggioranza e minoranza del Pd non è il Senato, ma, appunto, il Pd. Sull’onda del grande successo riscosso da Renzi nelle elezioni europee le minoranze interne erano sbandate, divise o sostanzialmente in disarmo e disponibili a confluire nella maggioranza. Ma Renzi ha voluto sottolineare che la vittoria era “sua” e che il Pd doveva diventare il “suo” partito, governato dai “suoi”. A questo punto l’opposizione si è rimessa in moto soprattutto contestando a Renzi di aver, dopo le europee, congelato il Pd appiattendolo completamente sotto il governo. Il Pd ha visibilità solo attraverso i ministeri. Il compito di chi sta in Largo del Nazareno è quello di applaudire i ministri e replicare ai “gufi”. Appena un esponente della maggioranza del Pd azzarda un commento o una idea personale — dalla Serracchiani a Tonini — viene immediatamente smentito.



Al congelamento imposto dal governo reagiscono però le varie realtà territoriali con il diffondersi delle “repubbliche autonome” (persino nelle province della Toscana a cominciare dallo stesso “governatore” che si dichiara “né antirenziano, né renziano”) che hanno messo nel mirino il congresso e puntano a un nuovo segretario nel 2017.

Che Matteo Renzi scenda però a patti non sembra verosimile. A suo vantaggio c’è la sostanziale fragilità di chi vuole contrastarlo o quantomeno condizionarlo sulla scena di Palazzo Madama. L’opposizione interna, proprio perché gioca la carta di un’alleanza trasversale da Grillo a Berlusconi, non prospetta alcuna alternativa politica. Non c’è una diversa linea di governo praticabile dal Pd.

 A Renzi si contrappone un Pd più di sinistra tra Tsipras, Corbyn e Podemos. E quindi andando allo scontro il fronte degli oppositori è destinato a perdere aderenti e a ridimensionarsi, in quanto se il capo del governo non può ricorrere al voto di fiducia, il segretario di partito può mettere in discussione l’appartenenza al Pd e la ricandidabilità di chi vota contro. 

Anche l’altro fronte sulla scena di Palazzo Madama non sembra inquietante. Il presidente Pietro Grasso ha messo in piedi una suspense da Alfred Hitchcock circa la decisione che prenderà sull’emendabilità dell’articolo 2, subordinando il merito al contesto e cioè all’esistenza di accordo o meno. Ma è una suspense che in questi termini non regge molto: ha lasciato passare troppo tempo. Un arbitro deve fischiare il “fuori gioco” nel momento in cui avviene e non quando si accorge che il portiere è rimasto spiazzato e il pallone sta entrando in rete. La vera incognita per Renzi — quella che può rimettere tutto in discussione — non è la tenuta del Pd, ma del partito di Alfano il cui progetto centrista non è decollato ed è quindi destinato a spaccarsi.