In certi momenti Matteo Renzi fa venire in mente il Grande Timoniere. “Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente”, diceva il leader della Rivoluzione cinese. E quella massima, adatta a tempi di grandi rivolgimenti, sembra attagliarsi alla perfezione al momento politico. 

Il tempo dei rinvii è finito, il momento del redde rationem è finito, ma nessuno sa se il premier abbia o no i numeri per far passare la riforma costituzionale targata Boschi e continuare la sua lunga marcia verso l’egemonia sulla politica italiana. Forse nemmeno lui ha certezze sui numeri, e forse proprio per questo il suo atteggiamento è diventato a prima vista sempre più sfidante, mentre i suoi colonnelli controllano freneticamente i numeri.



Sin qui, però, Renzi si è preso tutto il tempo possibile, rinviando al massimo il momento in cui la Commissione affari costituzionali del Senato dovrà cominciare a esaminare gli emendamenti. Quel momento è però arrivato, anche se vi potrebbe essere un ulteriore rinvio con la giustificazione della mole abnorme di proposte di modifica presentate da Calderoli, oltre mezzo milione. Troppo per rispettare la data limite, fissata al 15 ottobre. A grandi passi avanza l’ipotesi di andare in aula senza relatore, senza avere nemmeno cominciato l’esame di quell’Everest di emendamenti. E lì, grazie alla regola del “canguro”, che elimina gli emendamenti quasi identici, la stragrande maggioranza delle proposte di modifica potrà essere dichiarata inammissibile, e quindi lasciata cadere. 



Nell’applicazione del “canguro” Pietro Grasso si è rivelato un maestro già in occasione del primo passaggio della riforma al Senato, fra il luglio e l’agosto 2014. In aula, però, Grasso dovrà finalmente prendere posizione sul nodo più controverso, l’emendabilità dell’articolo 2, che contiene i nuovi criteri di nomina dell’assemblea di Palazzo Madama, punto contestato tanto dalla minoranza dem, quanto da tutte le opposizioni, che invocano l’elezione diretta dei futuri senatori. Per Renzi, però, questo è un punto dirimente, intoccabile. “E’ un problema di Grasso”, ha scandito il premier in tv, premendo con forza sulla seconda carica dello Stato. 



Il diretto interessato ha già fatto sapere che c’è una contraddizione da correggere, frutto di una svista della Camera, così da impedire che i sindaci (uno per ciascuna regione) rimangano in carica anche se cessati dal loro mandato di primo cittadino. Quel codicillo da modificare sta proprio nell’articolo 2. Ma se si apre quel vaso di Pandora, rischia di saltare tutto.

Le preoccupazioni per Renzi negli ultimi giorni sembrano però venire più da Area Popolare che dalla minoranza dem, con cui una trattativa alla ricerca di “modifiche chirurgiche” (copyright Giorgio Tonini) per salvare capra e cavoli non si sono mai interrotte. L’ala moderata della coalizione non è mai stata tanto in subbuglio. E’ sin troppo evidente che in molti sentono franare la terra sotto i piedi. 

Fra la riforma costituzionale e l’Italicum che assegna il premio di maggioranza alla lista, e non alla coalizione, Alfano, Cesa e i rispettivi partiti sono finiti fra i due fuochi. Rischiano di non poter andare né con il Pd né con il centrodestra, specie se a guida Salvini.

Non a caso Cesa, chiudendo la festa dell’Udc, ha avanzato due richieste: Senato elettivo e premio di coalizione nella legge elettorale. Sono rivendicazioni che piacciono anche a Ncd, dentro cui però il caos ha superato il livello di guardia. Per una Lorenzin che immagina alleanze con il Pd alle amministrative di primavera, c’è un Lupi che lavora per una candidatura comune del centrodestra a sindaco di Milano. Cicchitto dice “mai più con Berlusconi e Salvini”, e Giovanardi che scatena l’inferno sulla legge sulle unioni civili. I corridoi dei palazzi sono zeppi di voci malevole non verificabili, compresa quella che Alfano abbia già un accordo con il premier per candidarsi a governatore della Sicilia nel 2017, quando scadrà il mandato di Crocetta.

Il guaio per Renzi è che una trattativa politica risulta difficile con i centristi, dove ormai ogni singolo esponente sembra guardare più al proprio futuro politico che a quello del partito.

Difficile che la disamina di una situazione tanto caotica sia stata evitata nel colloquio che Renzi ha avuto con Mattarella, anche se ufficialmente al Colle si è parlato di Europa, immigrazione e legge di stabilità. Il Capo dello Stato segue con una certa preoccupazione il cammino delle riforme. Con Renzi, che è stato il suo king maker, condivide l’auspicio che il cammino possa andare finalmente in porto. Ma sulle singole soluzioni tecniche ha fatto sapere più volte di non avere alcuna intenzione di entrare, essendo materia di esclusiva competenza delle Camere. 

Mattarella non auspica la crisi, anche perché la sessione di bilancio è alle porte. Ma se qualcosa andasse storto, se i calcoli sul filo dei numeri fossero sbagliati (Prodi docet), a Renzi non potrebbe fare sconti. E difficilmente consentirebbe al terzo governo “creativo” di questa strana legislatura, a meno che non servisse per traghettare il paese al voto. Renzi lo sa,  e sa quindi che al Senato lo attende un salto mortale senza rete.