Il dilemma è all’apparenza irrisolvibile e tale da provocare un’indecisione degna dell’asino di Buridano: le elezioni sono più vicine se le riforme saltano, oppure se vengono approvate? A prima vista sembrerebbe più concreto lo scenario che vede il governo dimissionario nel caso di un incidente parlamentare, perché con il voto segreto su molti emendamenti “mai dire mai”.
Renzi ha utilizzato questa minaccia nemmeno troppo velatamente tanto nei confronti degli amici quanto degli avversari, uniti tutti da un’unica preoccupazione, quella di far durare il più a lungo possibile la legislatura, che per tantissimi sarà di sicuro l’ultima. Un problema davvero largamente condiviso, basti pensare a tanti esponenti di Forza Italia e di Ncd, agli ex 5 Stelle, a una minoranza Pd decisamente sovrarappresentata nei gruppi parlamentari che — va ricordato — vennero disegnati a immagine e somiglianza di Pierluigi Bersani due anni e mezzo fa.
Per convincere i più riottosi il giglio magico di Palazzo Chigi ha più volte fatto balenare l’ipotesi di una crisi di governo, con conseguente precipitare della situazione verso le urne. Ma è davvero così? I dubbi sono legittimi.
Il primo punto di incertezza è il Quirinale. Mattarella non è Napolitano e non potrebbe sciogliere le Camere senza aver rimandato Renzi alle Camere e aver fatto almeno un tentativo di dar vita a un nuovo governo, che in una situazione di “si salvi chi può” potrebbe persino trovare i numeri per nascere, con o senza Renzi alla guida. E non si dimentichi la necessità di evitare l’esercizio provvisorio del bilancio dello Stato, eventualità da allarme rosso per i rigoristi di Bruxelles, Francoforte e Berlino.
Anche nel caso in cui alla fine il capo dello Stato accettasse di firmare lo scioglimento delle Camere, lo scenario per Renzi sarebbe gonfio di incertezze. La nuova legge elettorale, l’Italicum, ha due difetti: vale solo per la Camera (perché presuppone un Senato non elettivo) ed entra in vigore solo il 1° luglio 2016. Il che significa che se si votasse fra oggi e la primavera del prossimo anno si sarebbe costretti a ricorrere al cosiddetto “consultellum”, cioè a ciò che resta della Legge Calderoli del 2005 (il Porcellum), sforbiciato a dicembre 2013 dalla Corte costituzionale. Si tratta di un sistema proporzionale senza premio di maggioranza, e con le preferenze.
Un’ipotesi è da escludere categoricamente: che Mattarella possa firmare un decreto legge che anticipi l’entrata in vigore dell’Italicum, estendendolo anche al Senato. Sarebbe un favore troppo grande a un solo giocatore il cambiare le regole a sua immagine e somiglianza a partita iniziata. Mattarella, che nel discorso di insediamento ha chiesto correttezza ai giocatori, non potrebbe permetterlo mai. Con il consultellum, visti gli attuali sondaggi, è facile prevedere che il Pd renziano sarebbe il partito più votato, ma rimarrebbe molto sotto l’attuale consistenza parlamentare di circa 300 seggi alla Camera, e quindi lontanissimo dalla maggioranza assoluta.
Per governare diverrebbe necessario formare un governo di coalizione. Fare accordi, magari una vera nuova grande coalizione con Forza Italia. In più, il gioco delle preferenze potrebbe consegnare a Renzi un pacchetto di deputati non così renziani come lui vorrebbe.
Diventa evidente, allora, come il premier segretario abbia pochissimo interesse ad andare al voto con queste prospettive. Vorrebbe dire consegnarsi alle eterne mediazioni che lo stanno sfiancando anche oggi. Altri cinque anni di palude, anche se forse un po’ meno melmosa dell’attuale.
Se, invece, il Senato dovesse dare davvero il via libera al disegno di legge Boschi entro il 15 ottobre, come Renzi spera, la terza e la quarta lettura della revisione costituzionale potrebbero avvenire a inizio 2016, e il referendum confermativo fra maggio e giugno. Sul suo esito positivo il capo del governo non nutre alcun dubbio, tanto da non aver affatto abbandonato l’idea di utilizzarlo come traino per la delicatissima tornata di elezioni amministrative prevista a primavera, quando si voterà per i sindaci di Milano, Napoli, Torino e di molte altre città.
A quel punto, dal 1° luglio 2016 tutto sarebbe pronto per ritornare al voto. Dal 1946 a oggi non si è mai votato per il Parlamento fuori dal periodo compreso fra i mesi di febbraio e giugno, per via della sessione di bilancio. Ma c’è sempre una prima volta. Se si votasse a metà ottobre ci sarebbe il tempo fra inizio novembre e fine dicembre di approvare la legge di stabilità, anche se un po’ a tappe forzate. Renzi ci potrebbe riuscire con un gruppo parlamentare di sua fiducia, coeso e compatto. Tutto il contrario del Pd di oggi.
I tempi combaciano: se passano le riforme, le elezioni si avvicinano. Non immediate, non in autunno (2015), e nemmeno in primavera. Ma l’orizzonte della fine della legislatura fra un anno esatto diventa ben più di un’ipotesi.