La tormentata vicenda della riforma del Senato si inserisce nell’incertezza di fondo che accompagna il dibattito sulle riforme istituzionali dagli ormai lontani anni ottanta del secolo scorso. Com’ è noto, è proprio questo uno degli argomenti più utilizzati da Matteo Renzi per sottolineare l’urgenza di una decisione e per sottolineare la differenza rispetto a chi lo ha preceduto negli scorsi decenni: dopo tanti anni di inconcludenza, ecco finalmente un partito, una maggioranza e un governo che decidono.
Corollario: se questa capacità venisse meno, verrebbe meno lo scopo stesso della legislatura. Se non si approva la riforma del Senato, insomma, meglio andare a votare. Ma ritardi e opposizioni ad una riforma in senso decisionista non sono frutto del caso: esprimono un problema tuttora irrisolto. Ed è significativo che, sia pure in extremis, lo stesso Renzi abbia “aperto” ai dissidenti, nel corso dell’ultima direzione del suo partito, facendo intravedere la possibilità che siano gli elettori a scegliere, di fatto, quali consiglieri regionali siano anche senatori, come chiede la minoranza del Pd.
Vedremo come andrà a finire. Intanto, è possibile fare qualche riflessione. Si tratta solo di una piccola bega di partito? Non sembra. C’è, al fondo, una questione di metodo prima ancora che di merito, verso la quale si è visto che neanche Renzi può essere totalmente insensibile. Si possono definire le regole del gioco attraverso lacerazioni profonde concluse da uno scontro totale? Detto in altri termini: si può decidere come decidere da soli e contro tutti? E’ dagli anni ottanta che va avanti il conflitto tra le ragioni del decisionismo e quelle del consensualismo, tra la necessità di decisioni rapide ed efficaci da parte di chi governa e l’esigenza di un coinvolgimento di forze diverse attraverso cui si esprimono differenti settori della società. La necessità di decisioni rapide ed efficienti è indotta dalla globalizzazione, l’esigenza di un coinvolgimento di forze diverse scaturisce dalla struttura stessa degli Stati nazionali. Il decisionismo — si dice — è sempre stato frenato dal consensualismo ed è quindi necessario far vincere il decisionismo senza trattative infinite e con un atto di decisionismo. Insomma, se tutti stanno fermi, qualcuno deve pur muoversi. Di qui la logica di Renzi: andare sino in fondo nell’introduzione di nuove regole del gioco, senza cercare di mettere d’accordo tutti. Ma il suo “cedimento” finale mostra che le cose sono più complicate. Il coinvolgimento di forze diverse rende indubbiamente più lenta e difficile la decisione ma — contrariamente alle apparenze — la mancanza totale di tale coinvolgimento svuota la decisione di forza e di efficacia.
Non si tratta di un’alternativa — come è stato sostenuto impropriamente — tra democrazia e autoritarismo. Se Renzi avrà il potere di prendere alcune decisioni da solo, ciò non significherà che è venuta in Italia la dittatura. La differenza tra democrazia e dittatura, infatti, non coincide con la presenza o meno di consenso ma con la presenza o meno di libertà.
Anche Mussolini ha goduto di un ampio consenso, così come ne hanno goduto i partiti democratici sorti in Italia dopo la seconda guerra mondiale. Ma il primo ha raccolto tale consenso senza libertà e con la violenza, i secondi invece nella libertà e con la persuasione. E’ una differenza fondamentale e non sembra che Renzi la voglia mettere in discussione.
La vera questione è un’altra: nella società complessa, più chi decide è solo, più la sua decisione è debole. Negli anni ottanta, Bettino Craxi cercò di decidere il più possibile da solo, ma nel complesso è riuscito a decidere ben poco. Chi governa, infatti, deve comunque mediare tra spinte contrastanti e più è solo più è debole nei confronti di queste spinte. Senza un’adeguata cornice istituzionale e politica, insomma, le decisioni che Renzi potrà prendere da solo saranno complessivamente deboli e lui stesso sarà rapidamente travolto.
Anche dalla vicenda dell’Italicum emerge una lezione analoga. Il grande premio di maggioranza in assenza di limiti e contrappesi è ispirato da una forte esigenza decisionista. Si dice: non importa se poi alla fine un partito con il consenso di un italiano su quattro o poco più conterà come se avesse la maggioranza assoluta dei voti e anche più. L’importante è che questo partito decida. Ma in quali condizioni e soprattutto per quanto tempo? I sondaggi mostrano che alle prossime elezioni potrebbe essere il Movimento 5 Stelle a beneficiare dell’Italicum, distruggendo buona parte di ciò che Renzi ha cercato di costruire. Più invece la maggioranza parlamentare è garantita da un sistema elettorale che favorisce la creazione di un consenso reale, meno gli improvvisi rovesciamenti di maggioranza diventeranno probabili.
Insomma, almeno le decisioni più importanti — come quelle che decidono chi decide — devono essere prese con il più largo consenso possibile. Non quello dei partiti, rispondono i renziani, ma quello del popolo. E infatti programmano un referendum sulla riforma costituzionale. Ma nessuna società può fare a meno dei partiti e non è un caso che, dopo aver ricucito all’interno del Pd, lancino messaggi distensivi a Forza Italia: più è ampia la maggioranza parlamentare che vota per la riforma del Senato, più sono le forze politiche che sosterranno il referendum costituzionale l’anno prossimo. Che altrimenti abrogherà la riforma. E, allora, diventerà molto arduo decidere chi deve decidere.