“Sono disposto ad accettare un’indicazione vincolante che viene da un pronunciamento democratico della nostra base anche su temi come la riforma costituzionale. Quello che è inaccettabile invece è pretendere disciplina rispetto a scelte che sono in evidente contrasto con il programma del Pd del 2013”. E’ quanto affermato da Alfredo D’Attorre, deputato della minoranza dem, a proposito del voto di lunedì in Senato sulla riforma costituzionale. Come ha spiegato il sondaggista Nicola Piepoli, “il Pd è una sorta di chiesa laica di rito renziano. E il papa è lui, anche se alla minoranza del partito questo non va giù”. E ha aggiunto Piepoli: “I militanti, quindi, faticherebbero a capire le ragioni di una spaccatura, proprio adesso che il Pd – attualmente al 32-33% – è saldamente in testa con l’unico antagonista possibile, il Movimento 5 Stelle”.



Onorevole D’Attorre, qual è la sua posizione sul voto di lunedì al Senato?

Nell’ultimo passaggio della riforma costituzionale alla Camera, non ho votato l’articolo 1 e ho partecipato al voto finale sulla riforma con una dichiarazione di voto in cui dicevo che erano necessarie serie modifiche al ddl costituzionale. Dal mio punto di vista la posizione dei senatori che hanno presentato emendamenti per chiedere una correzione dell’impianto è condivisibile, a maggior ragione dopo l’approvazione della legge elettorale che squilibra ulteriormente il sistema.



Quali sono le ipotesi sul tappeto in questo momento?

L’ipotesi preferibile sarebbe di gran lunga quella di un accordo nel Pd. Prendere atto che il nuovo Senato necessita di un’identità e di una vera funzione, a maggior ragione dopo l’approvazione della legge elettorale. Bisogna accettare di modificare l’articolo 2, per andare verso un Senato che rafforzi le sue funzioni di garanzia e che in quanto tale sia eletto direttamente dai cittadini.

Perché ritiene che vada modificato l’articolo 2?

La composizione è particolarmente bizzarra. Nello stesso organo dovrebbero coesistere consiglieri regionali scelti da altri consiglieri regionali, sindaci votati dai consiglieri regionali e addirittura cinque senatori di nomina presidenziale. E’ venuto fuori un pasticcio, e non si capisce il puntiglio di Renzi e del ministro Boschi rispetto a un’esigenza largamente condivisa di correggere la riforma.



Secondo Peppino Caldarola, se la minoranza vota no alla riforma “si rischia il crack totale”. Lei che cosa ne pensa?

Non condivido letture così catastrofiste. In primo luogo non capisco in base a quale criterio costituzionale e democratico il governo dovrebbe cadere o rassegnare le dimissioni se passano uno o due emendamenti all’articolo 2. La trovo una tesi francamente surreale. Non capisco perché si debba stabilire un automatismo tra un confronto parlamentare su materie costituzionali e la vita del governo.

Perché ritiene che non sia in gioco la tenuta del governo?

Il governo dovrebbe recuperare il senso del limite su materie costituzionali, che sono sempre state e devono essere di assoluta pertinenza parlamentare. L’invadenza del governo sia in materia costituzionale sia in materia elettorale, fino all’incredibile strappo del ricorso alla fiducia sull’Italicum, è un elemento che ha reso molto più incerto il percorso riformatore e che ha concorso a peggiorare la qualità delle riforme.

 

Secondo lei come andrà a finire?

Mi auguro fino all’ultimo che si trovi un’intesa, e che quindi intorno alle proposte di modifica si possa costruire una mediazione seria che stia in piedi nel merito. Ho sentito proposte di pseudo-mediazione piuttosto bizzarre. Si propone di lasciare inalterato l’articolo 2, e poi di introdurre soluzioni pasticciate su altri articoli che contraddicono quanto è scritto nello stesso articolo 2…

 

E se la mediazione saltasse?

Se questa non dovesse essere possibile, io penso che non ci sia nulla di scandaloso nel fatto che alcuni senatori possano votare a favore degli emendamenti che hanno presentato. Dunque che possano votare a favore degli articoli che trovano condivisibili, ed esprimere le loro proposte di modifica su altri. Dovrebbe essere un normale metodo di confronto parlamentare su una materia come quella costituzionale.

 

Secondo Piepoli la base del Pd non comprende la vostra battaglia. Lei continuerà a seguire i suoi principi o si adeguerà alla base?

Su materie costituzionali si è sempre riconosciuta una libertà di valutazione ai parlamentari. Se assumessimo il principio che su materie particolarmente importanti e controverse ci rimettiamo a un’indicazione vincolante che viene da un pronunciamento democratico della nostra base, io accetterei. Anzi avevo sollecitato un metodo di questo tipo già su Jobs Act e riforma della scuola, casi in cui Renzi ci ha portati in una direzione lontanissima da quella del programma del 2013 e molto più vicina alle posizioni assunte su questi temi da Forza Italia. Su questi temi sarebbe stato opportuno consultare in modo democratico la nostra base.

 

Ritiene che si possa fare lo stesso anche sulla riforma costituzionale?

Se si riconoscesse questa stessa necessità, è chiaro che su temi democratico-costituzionali il vincolo di disciplina diventerebbe ben più stringente. E’ molto difficile invece pretendere disciplina rispetto a scelte che sono in evidente contrasto con il programma con il quale ciascuno di noi è stato eletto.

 

(Pietro Vernizzi)