Esiste un’oscura “profezia” di Friedrich Nietzsche, in un suo scritto di circa 150 anni fa. E’ quella che prevedeva, di fronte al grande sviluppo dei traffici internazionali, l’unità degli “staterelli” europei (così li chiamava) per questioni di denaro. E’ una “profezia” che si è avverata, ma che sembra avere ben poco respiro. Una comunità senza un’anima, che si basa solo su interessi immediati, senza visioni complessive e senza il riconoscimento di un destino comune, è quasi programmata per arrivare alla situazione attuale dell’Unione europea, all’anarchia dei comportamenti, all’avidità dei singoli vecchi stati, in concorrenza tra loro. E alle follie, alle noiose e spesso intollerabili regole dei tecnocrati, che sono poi quelle che provocano, alla fine, il disinteresse o addirittura le ribellioni dei popoli.



In questa cornice del tramonto del Trattato di Schengen, tra muri e fili spinati che sorgono un po’ ovunque, e Stati che ricorrono addirittura alla requisizione del denaro per dissuadere l’entrata a chi fugge da guerre e dalla fame, venerdì si incontreranno il nostro primo ministro Matteo Renzi e una delle affossatrici dell’ideale europeo, il cancelliere tedesco Angela Merkel, leader incontrastato di questa Europa secondo alcuni analisti, che in realtà si è rivelata una “casalinga luterana”, cresciuta nella “democrazia popolare” di Ulbricht e Honecker, che ha pensato solo agli interessi della Germania, come le rimproverava un grande riformista (uno autentico, non un convertito postcomunista) come l’ex cancelliere Helmut Schmidt.



C’è da scommettere che, tra coltelli piantati sotto il tavolo, l’incontro di venerdì sarà “cordiale e costruttivo”, e quindi non servirà assolutamente a nulla, sia per risolvere i problemi europei, sia per affrontare quelli sempre più allarmanti che si vivono in Italia. Guardiamo con apprensione i problemi europei, pensando ai grotteschi richiami di chi in questi anni parlava di “più Europa”, ma siamo costretti a concentrarci su questa Italia, dove, qualche segnale statistico positivo ci impone ottimismo, altrimenti saremmo condannati al ludibrio di “gufismo”, di pessimismo non costruttivo, capace solo di seminare disgregazione e sfiducia. Sembra l’eco più morbida del “Taci, il nemico ti ascolta”.



C’è un primo punto da esaminare. I cosiddetti “dati” sono in controtendenza modestissima, dopo una caduta, in cinque anni, di dieci punti di Pil, del crollo della produzione industriale, della caduta dei consumi e del mercato interno, di inquietanti percentuali sulla disoccupazione (soprattutto quella giovanile al 40 percento) e sull’ampiezza delle povertà, vecchie e nuove, con un disagio sociale ancora più diffuso e una insicurezza generale che lascia senza speranza.

La colpa di tutto questo è colpa, secondo alcuni, del disastro del governo Berlusconi. E può anche essere vero che Berlusconi e Tremonti ci abbiano messo del “loro” nel portare l’Italia nelle circostanze in cui si trovava nel 2011. Ma la spiegazione è un po’ troppo schematica, se persino un deputato del Pd come Francesco Boccia, spirito libero, dice che se in quel momento la Bce si fosse dotata degli stessi strumenti che ha oggi, lo spread non sarebbe mai arrivato a quella paurosa quota che allarmò tutti e liquidò Berlusconi per mano quirinalizia.

Anche il dibattito sul debito pubblico italiano è piuttosto schematico. C’è chi ne attribuisce la causa agli “sperperi” della prima repubblica, quando l’Italia si disputava il quarto o quinto posto nel ranking dei più grandi Paesi industriali del mondo.

Ma la “svolta morale” del 1992 (nonostante i deliranti racconti dei serial televisivi) non ha corretto un bel nulla. Nemmeno con una raffica di svendite-liberalizzazioni dell’impresa pubblica italiana, per tutti gli anni Novanta e ancora adesso fatta dalla cosiddetta (e mai esistita) seconda repubblica, nonostante l’arrivo nel Palazzo dei “portatori di morale” sia del berlinguerismo che del dossettismo, il debito pubblico è sceso sensibilmente.

Non convince neppure la crescita del debito dopo la grande crisi del 2007. Come non ricordare che la crisi partì dai debiti privati delle banche, passati poi sui bilanci pubblici in tutto il mondo? Come non ricordare che l’assurda finanziarizzazione, la liberalizzazione selvaggia della finanza, in assenza di una classe politica degna di questo nome, ha lasciato in eredità la recessione, ha mortificato l’economia reale, ha provocato diseguaglianze sociali incredibili, con una catena di fallimenti di aziende e una conseguente caduta del Pil?

Quell’assurda liberalizzazione della finanza non fu dovuta solo dalla destra di tutto il mondo, ma fu accettata, quando non sponsorizzata, da una sinistra che dalle sirene del comunismo (e anche del riformismo) era passata al “paradiso” o alla paranoia dei titoli tossici da vendere in tutte le banche del mondo: da New York ad Arezzo e Chieti. Ma è possibile che di un fatto entrato in uso comune nel 1992, alcuni politici se ne accorgano solo all’alba del 2016, sostenendo che bisognerebbe dividere le banche commerciali da quelle di affari? Ma dove vivevano in tutti questi anni?

Forse il problema è che in tutti questi anni, al posto di avere improvvisatori e “dilettanti allo sbaraglio” in Parlamento, occorreva avere delle selezionate élites politiche che sapessero anche suggerire e imboccare strade diverse di politica economica e industriale. Che almeno si provassero altre strade per uscire da una crisi che al prossimo agosto comincia il suo nono anno.

Arriviamo pure al secondo punto che riguarda il governo di Matteo Renzi. Forse Cirino Pomicino esagera quando parla di “Repubblica delle giovani marmotte”, ma non c’è dubbio che il problema “sociale ed economico”, cioè il vero “problema dei problemi” non troverà una soluzione nemmeno nei prossimi due anni. Lo sa tanto bene il nostro primo ministro che fa finta di non dare peso alle amministrative della prossima primavera, si dilunga sul problema delle riforme istituzionali rinviando a un referendum che dovrebbe assumere il significato di una sorta di “ordalia” referendaria. Poi ogni tanto alza i toni con l’Europa ( probabilmente perché qualcuno glielo suggerisce) e poi è pronto a incontri “franchi e costruttivi”. Non comprendendo fondamentalmente due cose. 

Per prima cosa l’Italia si aspetterebbe una autentica svolta di politica economica e fiscale, subito, non da “calendarizzare” (come si dice adesso in maccheronico), in grado di coinvolgerla in una ripresa a breve scadenza. In secondo luogo, Renzi non si rende conto che la stessa gentile “casalinga luterana” che lo incontra venerdì, per bocca del suo portavoce lussemburghese, ha chiesto indirettamente a Roma un “ricambio”, quando si è detto da Bruxelles “Non abbiamo interlocutori a Roma”. E nelle ultime ore è arrivato pure un severo ammonimento sull’entità del debito italiano, che metterebbe a rischio tutta Europa.

Che cosa fa invece il nostro giovane “rottamatore” presidente del Consiglio? Si balocca con una questione bancaria difficile da far dimenticare agli italiani e difficile da risolvere anche con l’accordo, piuttosto complicato e costoso, ottenuto in sede europea. Renzi continua combattivo e giocondo, gioca con aggregazioni parlamentari variabili e un partito frastornato, con una maggioranza “fisarmonica” che tocca i tasti dei Verdini e dei Tosi. Poi, come al solito, invita al referendum di una legge che limita la democrazia rappresentativa e assegna un premio di maggioranza che fa paura.

Nel frattempo, da anche fiato alle grandi “distrazioni di massa”, col dibattito infinito sulle unioni civili. Ma per quanto tempo crede che possa durare una simile situazione di instabilità, confusione e preoccupazione generale?