Matteo Renzi ha sparato le sue cartucce il 29 dicembre, in una conferenza stampa che è apparsa, rispetto alle precedenti, abbastanza strana. C’era la voglia del presidente del Consiglio di promettere, tranquillizzare l’opinione pubblica, creare ottimismo nella ripresa e nella crescita. Tuttavia in questa occasione Renzi è apparso anche in imbarazzo, forse più chiaramente che in alcune circostanze della sua breve e intensa carriera politica.



Il nodo dell’imbarazzo è apparso chiaro a tutti: la questione delle quattro banche che hanno messo al tappeto migliaia di risparmiatori sarà un brusco e continuo richiamo alla realtà per tutto l’anno, bisestile, che è appena cominciato. Non c’è dibattito televisivo che, alla fine, nella ricerca di tracciare un quadro complessivo dell’azione del governo e delle prospettive dell’Italia, non vada a toccare quella che ormai si può definire la “questione bancaria” e la truffa ai risparmiatori.



Renzi lo ha compreso benissimo e ha fatto quindi il grande rilancio, come un giocatore spregiudicato. In sostanza il presidente del Consiglio si gioca tutto, compreso il futuro del governo e il “suo” personale avvenire politico, con il referendum sulle riforme costituzionali, cioè il prossimo ottobre, bene che vada. Il resto si aggiusterà quasi di conseguenza, fa intendere il premier.

Questa mossa è un azzardo grosso ma ambiguo, perché dieci mesi, in una situazione politica interna e internazionale come quella che viviamo, sono un tempo molto lungo, un tempo che può logorare o far sopravvivere chiunque. È un tempo che sarà scandito da convulsioni geopolitiche, soprattutto in Medio Oriente, e dalla consueta e periodica interpretazione dei dati sulla ripresa italiana, se ci sarà. Con uno sguardo particolare ai numeri sull’occupazione come, indirettamente, gli ha ricordato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel messaggio di fine anno agli italiani.



A questo punto e in questo quadro, l’appuntamento decisivo non sembra ottobre, ma la prossima primavera. Tre mesi di battaglia politica nella città più importanti d’Italia: Milano, Roma, Napoli, Torino, tanto per citare le più decisive. Sarà il risultato di queste consultazioni a chiarire se Renzi ha ancora la fiducia che gli hanno dato gli italiani quando è apparso sulla scena politica e quando si è votato per le europee. All’interno di questo voto importante c’è una realtà che potrebbe rivelarsi decisiva. Potremmo sbagliare e sopravvalutarla, ma a noi sembra che questa realtà sia quella di Milano.

Se si guarda in controluce queste consultazioni, anche per quello che si è visto in questi anni, Napoli appare quasi una “scommessa” in una scacchiera complessa e imprevedibile, dove tutto è possibile; Roma è stata al centro di tali convulsioni e tensioni che, al momento, l’importante sembra governare la città, prima ancora di conquistarla. A Torino c’è una partita tutta a sinistra, quasi una prova di forza, tra Piero Fassino e il candidato di Sel, l’ex sindacalista Giorgio Airaudo.

Ma il contesto specifico di queste città non vale la partita di Milano che è ritornata la “capitale morale” d’Italia, secondo la definizione di un uomo di “peso” come il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone; Milano è la città che può annoverare l’unico successo italiano di questi ultimi anni, quell’Expo che suscitava speranze ma anche apprensioni e che sinora è rimasta immune da “code” spiacevoli; Milano è sempre la città che conta il 10 per cento del Pil nazionale ed è un punto di riferimento internazionale per investimenti esteri e per grandi affari internazionali. Ancora, Milano resta sempre la “capitale” di quel poco che rimane dei cosiddetti, o degli ormai sedicenti, “poteri forti” che sopravvivono.

Quando Renzi per Palazzo Marino ha fatto il nome di Giuseppe Sala, l’uomo dell’Expo, non ha improvvisato nulla, ma ha fatto un calcolo preciso tenendo presente tutte le considerazioni che si sono fatte intorno a Milano. Se si voleva tenere in considerazione un candidato che potesse rappresentare il futuro “partito della nazione” o un rinnovato centrismo o qualche cosa ancora che al momento sfugge, Beppe Sala era inevitabilmente il più indicato. L’incrocio tra il consiglio di amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti e l’Expo è la credenziale più forte di Sala, quella che gli assicura una platea vasta, che spazia in diversi ambienti che non hanno una precisa “targa politica” e tanto meno una vocazione ben marcata a sinistra.

Tanto per intenderci, Giuseppe Sala, con la storia della sinistra italiana e di quella milanese c’entra come i cavoli a merenda. Sono ormai più di venti anni che Milano ha perso la sua vocazione riformista, quella autentica, che da Emilio Caldara è sopravvissuta addirittura al fascismo, ritornando dopo l’ultima guerra con Antonio Greppi. Non può certo reinterpretarla Beppe Sala, il guru dell’Expo. Sala con quella tradizione non ha nulla a che vedere e, anche se continua a dichiararsi di sinistra, non c’entra nulla forse nemmeno con la storia contorta che ha portato alla creazione del Pd.

Manager, tecnico di alto livello, Sala è vissuto in contatto con Marco Tronchetti Provera nel settore “Real Estate” della Pirelli, poi con il “playmaker” Bruno Ermolli (ai tempi uno dei personaggi più ascoltati da Berlusconi) e infine si è infilato come “city manager” nella giunta di Letizia Moratti, diventando di fatto il vero vicesindaco. Ha detto recentemente che ha votato per Giuliano Pisapia già nel 2011, quando il sindaco per cui lavorava stava al ballottaggio. E Sala ripete, forse a se stesso in una ossessiva forma di autoconvinzione, che è un uomo di sinistra. 

Non c’è dubbio che il personaggio sia forte, che possa andare a “pescare” consensi in tanti ambienti milanesi. Ma non c’è dubbio che nell’attuale sinistra, nel Pd milanese e nella coalizione con Sel, Beppe Sala, grande guru dell’Expo, non è amato, anzi divide, crea dei malumori. La prima vera partita per Sala si gioca a febbraio, alle primarie del Pd. C’è chi sostiene che “se vanno a votare in cinquantamila, i militanti e i simpatizzanti del partito, Sala rischia di perdere. Nel Pd è più popolare Francesca Balzani. Se vanno invece 70mila persone, se si aggiungono cioè altre persone che con il Pd non hanno nulla a che fare, Sala vince”.

Tutto questo fa comprendere che Renzi punta a un partito ben diverso da quello che dovrebbe avere una continuità con la storia e la tradizione riformista e con quella di sinistra. Ma proprio questa scelta, così decisa, così caratterizzante nella sua diversità per un partito per il Pd, è il vero azzardo di Renzi. In parole povere è Giuseppe Sala, l’uomo nuovo di Milano, il “promosso” dall’Expo e il rappresentante forse di una nuova borghesia, la vera scommessa di Matteo Renzi. Non occorre aspettare quindi il plebiscito di ottobre, il referendum sulle riforme costituzionali per vedere il futuro del governo. Bastano tre mesi, i dati sull’economia di questi mesi, i numeri sulla disoccupazione, la percezione di fiducia che hanno gli italiani, per comprendere se il governo Renzi arriva a scadenza naturale e si rilancia, oppure se viene stoppato da un risultato incerto, se non negativo. Giuseppe Sala, nel contesto che si configurerà in questi mesi, può essere il sigillo di una vittoria che rimette in discussione le stesse radici della sinistra, oppure può essere l’inizio, in caso di sconfitta, di un declino anche dello stesso renzismo.