“Non si può votare Sì a un referendum su una riforma che attua una torsione autoritaria della Costituzione, senza prima sapere se la legge elettorale agevolerà o meno questa torsione”. E’ quanto afferma Rino Formica, ex ministro del Lavoro e per due volte ministro delle Finanze, secondo cui “in questo la posizione della sinistra Pd è perfettamente coerente. Non si può accettare che Matteo Renzi dica che dopo il referendum modificherà l’Italicum, senza nemmeno sapere come lo cambierà”. In un’intervista uscita giovedì su Il Foglio, il presidente del consiglio aveva rimarcato: “La sinistra, ormai, è in larghissima parte con noi. La questione vera oggi è la destra. E l’elettore di destra oggi si trova di fronte a due scelte: votare sul merito, non votare sul merito”. “Per favore – dice Formica al sussidiario – non mi chieda di esprimere un parere sulle chiacchiere di un ballista, di un giocatore delle tre carte. Renzi può dire tutto e il contrario di tutto, ma ciò serve solo alla sua sopravvivenza quotidiana”.
Ma che cosa ne pensa dell’idea che i voti del centrodestra siano indispensabili per vincere il referendum?
Il referendum non è uno scrutinio di lista, bensì un voto su un insieme, su un tutto. La vera questione è un’altra.
Quale?
Il punto debole della campagna per il Sì di Renzi è che c’è una contraddizione sostanziale. Il quesito sulla riforma che modifica 47 articoli della Costituzione consta di cinque domande autonome. Ciò doveva portare acqua al mulino dello spacchettamento, in quanto un unico quesito che contenga cinque domande diverse non è ammissibile. Per esempio l’abolizione del Cnel non c’entra nulla con le modifiche al Titolo V della Costituzione. La questione è che Renzi sta facendo una campagna elettorale per più domande referendarie, chiedendo però un unico voto.
Lei come valuta la posizione della minoranza dem, che propone una sua legge elettorale ma poi, nella sostanza, chiede a Renzi di trovare i voti?
La trovo una posizione coerente. Agli occhi della minoranza Pd non si può prendere per buono un generico impegno a modificare l’Italicum dopo il referendum. E’ stato il governo ad avere collegato il meccanismo della legge elettorale a quello della riforma costituzionale. Quella elettorale però è una legge ordinaria, mentre la riforma costituzionale ha una sua procedura autonoma. La minoranza Pd teme che, dopo il referendum, Renzi cambi la legge elettorale come vuole lui. Il premier infatti non ha precisato come intende modificare l’Italicum.
Resta il fatto che il 4 dicembre si vota sulla riforma costituzionale, non sull’Italicum.
La minoranza dem giudica la riforma costituzionale come una torsione in senso autoritario della Costituzione stessa, e vuole sapere prima se la legge elettorale agevolerà o meno questa torsione. Ha quindi ragione a dire che Renzi deve modificare la legge elettorale prima del referendum.
Sul referendum costituzionale potrebbe riversarsi il malcontento degli italiani nei confronti di un’economia che non riparte?
Questa è una domanda più psicologica che politica, ma la mia spiegazione di questo malcontento è un’altra. In tutta Europa c’è un’insoddisfazione nei confronti di governi che non riescono a uscire da questa lunga crisi. Anche laddove, come in Italia, non si è immersi drammaticamente nella crisi economica e finanziaria, c’è comunque un malcontento che coinvolge per esempio lo stesso governo tedesco. Questo sentimento nasce dal fatto che i governi non sono nelle condizioni non solo di risolvere i problemi, ma nemmeno di indicare una prospettiva che nel tempo possa portare in questa direzione.
Secondo lei questa prospettiva deve passare da un’uscita concordata dall’euro?
L’euro è uno degli aspetti, ma non quello centrale. L’aspetto centrale è uno solo: non si possono fare politiche sovranazionali mantenendo la condizione di divisione politica dell’Europa. Se le scelte di carattere economico e finanziario sono sovranazionali, non si spiega perché le decisioni politiche continuano a essere nazionali. E’ questo il vero conflitto.
Eppure i problemi sono iniziati proprio con l’euro.
Il male non è l’euro in sé, che anzi ha prodotto anche dei vantaggi, quanto piuttosto la mancanza di controllo politico sulla nuova moneta. Serve una politica unica europea di bilancio, che dipende dall’integrazione politica. Non si può attuare un’integrazione monetaria, economica e finanziaria se prima non si fa anche quella politica.
A questo punto occorre tornare indietro rispetto all’euro o andare avanti con l’unione politica?
Occorre andare avanti con l’unione politica. In questo però la Brexit non aiuta perché ha introdotto il sistema della secessione. E’ una via facile che risulta certamente difficoltosa per un grande Paese come il Regno Unito, ma che diventa difficoltosissima per un piccolo Paese, specialmente se si trova in crisi economica.
(Pietro Vernizzi)