Assicura di essere riuscito a tenere insieme competitività ed equità sociale. Ma per Matteo Renzi il difficile è scrollarsi di dosso l’impressione di aver varato una manovra elettorale nel più puro stile Prima Repubblica. Di aver sparato l’arma segreta per risalire la china di sondaggi contrari e vincere la sfida della vita, quella referendaria del 4 dicembre.
La manovra è lievitata nelle ultime ore di un paio di miliardi, toccando quota 26,5. E l’elenco degli stanziamenti che puzzano lontano un miglio di mancia pre-elettorale è praticamente infinito: si va dai 7 miliardi per l’anticipo pensionistico (il cosiddetto Ape) e per le quattordicesime, un miliardo per le piccole e medie imprese, due miliardi in più per il fondo sanitario nazionale, Ires al 24% (contro il 27,5% attuale), azzeramento dell’Irpef agricola, nuovi fondi per le scuole, non escluse le paritarie. Dulcis in fundo la chiusura dell’odiatissima Equitalia (come se qualcun altro non dovesse poi fare lo stesso lavoro) e l’abbassamento a 90 euro della tassa meno sopportata dagli italiani, il canone Rai. Ce n’è per tutti, o quasi: #bastaunsi.
Se questa batteria di provvedimenti riuscirà a smuovere l’economia italiana (“L’Italia non va ancora bene, ma va meglio di prima”, parola di Renzi medesimo) è tutto da dimostrare. L’impressione degli osservatori non di fede renziana è che gran parte delle promesse sia funzionali a spingere il Sì verso la vittoria.
E’ uno scenario osservato con preoccupazione estrema dal Quirinale, dove alberga il timore di una bocciatura della manovra in sede europea, visto che la flessibilità invocata a gran voce da Renzi è stata portata al limite estremo concepibile. E nella settimana che ha proceduto il varo della manovra un piccolo episodio ha reso evidente la tensione. Si tratta della precipitosa smentita venuta dal Colle alle voci che Mattarella avrebbe minacciato di non firmare la manovra, in caso di mancato calo del deficit strutturale, come prescriverebbe la modifica costituzionale che introdusse il pareggio tendenziale di bilancio all’epoca dei governo Monti.
“Ricostruzioni senza alcun fondamento” quelle ripostate da un famoso sito di gossip, hanno fatto sapere subito dal Colle, eppure alla fine nel testo approvato dal Consiglio dei ministri il rapporto deficit/Pil è indicato al massimo del 2,3%, un decimale in meno di quanto approvato dal parlamento. Come a dire che un addolcimento della spinta a spendere da parte del governo alla fine c’è stata, non fosse altro che per ragioni prudenziali, per lanciare a Bruxelles il segnale che la corda non è stata proprio tirata al massimo.
Mattarella non può che sperare che l’azzardo renziano abbia successo. Ma si deve preparare al peggio. Non a una bocciatura europea, piuttosto improbabile, in realtà, ma a una vittoria del No il 4 dicembre. In settimana, dal palco dell’assemblea dei sindaci a Bari, è stato chiarissimo: “E’ necessario, nell’avvicinarsi al giorno del referendum, e sarà necessario, dopo il suo risultato, il contributo di tutti, sereno e vicendevolmente rispettoso”.
Il difficile, dunque, comincerà la marina del 5 dicembre, quando ci sarà comunque un paese da gestire e da mandare avanti. E bruciarsi troppi ponti alle spalle non è prudente, né per Renzi, né per quei suoi avversari che il giorno dopo potrebbero essere chiamati dal Quirinale a sedersi allo stesso tavolo per definire insieme un governo per riscrivere le regole elettorali di Camera e Senato.
Renzi deve tener ben presente che, in caso di sconfitta nella consultazione referendaria, verrà sostanzialmente ad esaurirsi il patto che lo aveva legato al Capo dello Stato, da lui scelto come successore di Napolitano. In quel caso Mattarella recupererà una piena libertà di azione, la cui stella polare sarà non consegnare il paese all’ingovernabilità, precipitandolo verso le urne. Prima la legge elettorale, poi il voto, alla scadenza naturale della legislatura probabilmente.
Ma Renzi non lascerà nulla di intentato per sovvertire tutti i pronostici. La manovra economica è soltanto una parte di una controffensiva che comprende anche la visita alla Casa Bianca, in compagnia delle eccellenze del made in Italy, da Roberto Benigni a Bebe Vio, oro paralimpico, da Fabiola Giannotti, numero uno del Cern di Ginevra, sino a Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa in prima linea nel soccorso ai migranti. Operazione acchiappa consensi, ad alto contenuto d’immagine.
Ma la partita più scivolosa è quella sul fronte interno. Nel suo partito, anzitutto, dove il solco con la minoranza si allarga ogni giorno di più, avvicinando il momento di una inevitabile scissione. E non può che gettare sale sulle ferite l’annuncio di Denis Verdini che dopo la vittoria del Sì la sua pattuglia parlamentare entrerà organicamente nell’area di governo. C’è un largo pezzo di Pd che lo vede come fumo negli occhi.
A 50 giorni dal voto tutto può ancora accadere, ma soprattutto è chiaro che l’indomani nulla sarà più come prima. Nè per Renzi, nè per i suoi oppositori, interni ed esterni.