Caro direttore,
si riducono i costi della politica e si tagliano 500 milioni. Se vince il Sì gli italiani risparmiano. Questo è il refrain con cui Matteo Renzi sta conducendo la campagna per il referendum del 4 dicembre sulla sua riforma costituzionale.
Ma è davvero così? Gli italiani risparmiano con la riforma, ammesso che ridurre la spesa pubblica sia una valida ragione per mettere mano alla Costituzione di una Repubblica? È vero che se vince il No torniamo ad essere esposti sui mercati internazionali?
Innanzitutto va detto che, come ha recentemente dichiarato Mario Draghi in un’audizione dell’Europarlamento, il problema dell’affidabilità dell’Italia è legato al suo debito e non alla Costituzione. L’esposizione sui mercati internazionali ha a che fare con la gestione del suo bilancio e le garanzie che questa è in grado di offrire ai creditori. Non con la trasformazione del senato. E lo sa anche Renzi. Che infatti ha introdotto l’argomento del risparmio di risorse pubbliche.
Ad una prima analisi si potrebbe facilmente dire che 500 milioni sui circa 800 miliardi di spesa pubblica sono davvero poca cosa. “Meglio di niente” potrebbe replicare qualcuno. Vero. Tuttavia, sempre nell’ottica della prospettiva dentro cui si è voluta inserire l’attuale campagna referendaria, occorre chiedersi a cosa servano quei risparmi, ovvero se – a parità di deficit – il taglio della spesa serve per ridurre il debito, oppure per finanziarne di nuova o invece per diminuire simultaneamente la pressione fiscale in modo da favorire una crescita economica.
Una cosa sull’attuale riforma si può dire: è molto alto il rischio che gli eventuali risparmi siano a danno degli enti locali che, a loro volta, per compensare i mancati trasferimenti statali si rifanno sui cittadini. Il nuovo Titolo V, infatti, assegna allo Stato come competenza esclusiva il “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, ma riconosce agli enti locali la possibilità di “compartecipare al gettito dei tributi erariali” (art. 119.3).
Ne deriva che si cristallizza in principio costituzionale l’effetto combinato a cui abbiamo assistito negli ultimi anni, quello per cui ai tagli lineari dal centro alla periferia si è risposto con un significativo aumento della pressione fiscale, “cresciuta dal 38 per cento al 44 per cento, imputabile per oltre 4/5 alla dinamica delle entrate locali” (Corte dei Conti, audizione parlamentare del 6 marzo 2014). E a tal proposito è quasi superfluo ricordare la ridda di sigle che si sono succedute ad ogni intervento legislativo sul fisco municipale: Ici, Imu, Tarsu, Tares, Tasi, Tari, Iuc, ecc. Quel che rimane è una diminuzione del risparmio privato, un calo del valore patrimoniale e un generale impoverimento.
Sul fronte della spesa pubblica circa il 60% resta concentrato nelle mani dello Stato centrale e la cosiddetta spending review, fino ad ora, ha sempre riguardato ovviamente il restante 40%. La riforma Renzi-Boschi abolisce le province, che ne rappresentano l’1,3%, e riduce a 10 le materie di competenza delle regioni, poiché queste si sarebbero dimostrate “spendaccione” (per talune è vero, per altre è palesemente falso). Eppure la loro spesa costituisce il 18% del totale e, nell’ultima annualità di cui si conoscono i dati, i tagli hanno finito per incidere già sul 38% delle uscite delle regioni.
Non si può certo dire la stessa cosa per Stato (29,9%) ed enti previdenziali (39%), che nello stesso periodo hanno subìto tagli per una incidenza sulla loro capacità di spesa rispettivamente del 13,4% e dello 0,6%. Anzi, per quanto riguarda il comparto che costituisce la maggior voce di spesa, Renzi annuncia addirittura l’aumento delle pensioni minime. Forse per vincere il referendum, sostengono i maligni. In ogni caso si tratta di più spesa.
Solo un’altra istituzione fino ad ora era riuscita a fare di più in materia: la Corte Costituzionale che, con la sentenza n. 70 del 2015, ha bocciato la decisione con cui nel 2011 era stata bloccata l’indicizzazione delle pensioni superiori ai 1.500 euro mensili lordi. Decisione che ha suscitato molte polemiche e dibattito. Non solo per l’esborso, con valore retroattivo, a cui viene condannato il governo in tempi di vacche magre e in una condizione demografica per cui le molte pensioni di oggi sono tutte a carico dei pochi lavoratori attuali (secondo l’esecutivo la restituzione di tutto l’importo dopo lo stop all’indicizzazione avrebbe dovuto impegnare ben 18 miliardi!). Ma anche perché è discutibile far rientrare il principio “della proporzionalità e adeguatezza del trattamento pensionistico” tra quelli riconsiderati nella struttura fondamentale della Carta costituzionale e degni di tutela da parte della Corte.
Eppure la riforma Renzi-Boschi decide di aumentarne la possibilità di intervento “integrativo” rispetto al legislatore. Lo fa quando prevede un parere preventivo [sigh!] sulle proposte di modifica della legge elettorale. Lo fa quando, in assenza di una intesa tra i presidenti di Camera e Senato, la Corte potrà dirimere i conflitti di competenza creati da una eccessiva differenziazione dei procedimenti legislativi che segna il passaggio dalle leggi bicamerali a 7 o 8 percorsi diversi tra i due rami del Parlamento. Taluni intravedono in questo aumento di potere una accelerata a quel processo di “giudiziarizzazione” della vita democratica che caratterizza il mondo occidentale contemporaneo, ma soprattutto l’Italia della Seconda Repubblica e nata sulle ceneri di Tangentopoli. E così, ciò che dovrebbe essere sanato da una riforma costituzionale, in realtà, appare essere aggravato. Sia che si tratti di equilibrio tra poteri dello Stato. Sia che si tratti di spesa pubblica.
Per questo non basta accostarsi al voto di domenica 4 dicembre rispondendo alle domande capziose che campeggiano sui manifesti delle nostre città. Occorre davvero guardare alla totalità dei fattori in gioco. E rischiare un giudizio.
Personalmente provo a rischiarlo in forza dell’esperienza di un amministratore locale che guarda ad una piattaforma politica liberalpopolare, che vuol dire: meno Stato, meno spesa pubblica, meno oppressione fiscale, più libertà d’impresa, più autonomia delle comunità locali, più sussidiarietà. E dico no a questa riforma. Sì invece ad un’Assemblea costituente, che separi la necessaria riforma delle istituzioni dall’attività di governo. Qualunque governo di qualsivoglia colore.