Di fronte ai sondaggi che continuano a dare il No vincente nel referendum del 4 dicembre l’inner circle del presidente del Consiglio comincia a dividersi tra due opzioni: da un lato puntare alla contrapposizione frontale con Grillo (un governo riformista contro un estremismo immobilista); dall’altro cercare di battere Grillo rincorrendolo sul suo stesso terreno, presentandosi cioè più grillino dei grillini ovvero Renzi come l’antipolitica-che-agisce contro l’antipolitica delle chiacchiere.



Alla ripresa della campagna elettorale in settembre era prevalsa la prima opzione e Renzi ha impostato lo scontro con il No cercando di riproporre all’elettorato lo schema che lo aveva visto vincente nelle europee con il 41 per cento: o io o il caos. Nei primi dibattiti ha quindi scelto come avversari prima Marco Travaglio e poi Gustavo Zagrebelsky — gli esponenti della sinistra “giustizialista”, i principali campioni dell’antiberlusconismo sin dal secolo scorso — puntando così a rimontare nei consensi sfondando nell’elettorato di centro-destra. Sembrava una strada percorribile con buoni risultati. Infatti si è registrato un flusso elettorale dal non voto al voto che si riversava in maggior parte sul Sì. 



Ma Renzi ora, in ottobre, ha cambiato idea e ha reimpostato in modo diverso la campagna per il Sì. Forse si aspettava risultati immediati più avvincenti, ma quel che ha più pesato è che l’appello lanciato agli elettori di centro-destra ha infiammato l’opposizione interna al Pd fino al mettere a rischio l’unità del partito. Renzi si è così trovato incalzato dai sempre più numerosi “pontieri” che — da Franceschini a Delrio — premono per un compromesso con Bersani. Cresce cioè nella maggioranza (sempre meno omogenea) di Renzi il timore di infilarsi in un cul de sac: se vince il No il governo cade, se vince il Sì il Pd si spacca (in quanto la minoranza non accetta il “potere assoluto” di Renzi e il governo finisce ancor di più nelle mani di Verdini). Inoltre i “guru” renziani della comunicazione considerano la carta dell’antipolitica quella vincente.



E così il premier, smessi i panni dello statista contro il movimentismo, oggi è in campo contendendo ai Cinque Stelle il titolo di campione del “mandare a casa” i politici. Il rischio di questa campagna referendaria è che l’antipolitica — “la politica della rabbia” come l’ha definita Giorgio Napolitano (in definitiva il qualunquismo) — si cristallizzi come “pensiero unico” nazionale.

Comunque allo stato attuale il No rimane in testa e la “personalizzazione” continua a dominare la scena

E’ vero che Renzi ha fatto autocritica e continua a dire che non si vota su di lui. Di fatto però la personalizzazione persiste non solo perché ormai i sostenitori del No parlano solo di Renzi e poco o niente della riforma costituzionale, ma anche perché il premier-segretario non ha voluto creare una maggiore coralità alla campagna per il Sì. 

E’ evidente che Renzi non gradisce dare visibilità ad altri (al massimo la Boschi in quanto titolare del testo) e non permette che personalità di rilievo siano sulla scena dei mass media per il Sì. Eppure nei Comitati del Sì vi sono esponenti della cultura accademica e del mondo economico di grande rilievo, ma per Renzi si tratta solo di “galoppini”. Quindi lo schema rimane il Renzi contro tutti.

Quel che può avere una ricaduta negativa sono però le difficoltà della politica estera. 

In Europa il “racconto” dell’Italia, dopo la Brexit, nel gruppo di testa dell’Ue è stato smentito e siamo nell’angolo dello “zero virgola”. In aggiunta la “gaffe” del segretario della Nato, Stoltenberg, macchia l’incontro che Renzi avrà con Obama. E cioè gli italiani vengono a sapere dal segretario della Nato di passaggio a Roma quali sono i nostri impegni militari e quanto siamo stati coinvolti dagli Stati Uniti nello scontro politico-economico-militare con la Russia. Renzi si difende buttandola in ridere (“non è l’invasione dell’Urss”), ma il punto è rilevante. In primo luogo, anche nel pieno della “guerra fredda”, l’Italia ha sempre avuto una politica estera di relativa autonomia. Da Fanfani a Moro, da Andreotti a Craxi, Palazzo Chigi (con Farnesina e Difesa) ha sempre praticato quella che era chiamata l’interpretazione “restrittiva” della Nato salvaguardando gli interessi nazionali dal Medio Oriente a Mosca e Pechino. Nella Seconda Repubblica sia Prodi sia Berlusconi hanno fatto altrettanto. Il modo in cui Renzi segue Obama è abbastanza inedito.

Inoltre la politica estera di Obama — dal disimpegno in Iraq all’appoggio alle primavere arabe e alla guerra contro la Libia — non solo ha un bilancio negativo, ma non ha mai incrociato né tutelato gli interessi italiani. Obama in Europa ha seguito la politica di avere la Germania come “soggetto unificatore” con l’Ue non soggetto geopolitico. Più in generale per la Casa Bianca il terrorismo internazionale e in particolare l’Isis rappresentano un problema secondario mentre la precedenza deve essere data alla lotta contro Putin.

In questo scenario Renzi ha scelto di puntare tutto sull’appoggio della Casa Bianca. L’incontro di mercoledì prossimo a Washington sanzionerà la “benedizione” del premier italiano e quindi se l’8 novembre vince la Clinton, Matteo Renzi è convinto che la campagna referendaria sarà verso il 4 dicembre una volata senza rivali.