Nel suo articolo di lunedì 24 ottobre apparso sull’Huffington Post, Stefano Ceccanti legava la battaglia per il Sì alla riforma costituzionale a quella degli anni 90 dei referendari che con Mario Segni ottennero di smantellare il sistema elettorale del tempo, e ne trae la conclusione, guardando anche alle vicende greche e al recente accordo spagnolo sul governo, che, oltre alla riforma, sarà opportuno tenersi anche l’Italicum così com’è con il ballottaggio tra due liste, affinché non vi sia un governo di coalizione.



Nel movimento referendario, al quale partecipai attivamente, erano presenti due anime diverse. La prima era animata dall’intento di creare un sistema politico autenticamente popolare, in grado di ripristinare la partecipazione dei cittadini attraverso partiti di massa rinnovati nella direzione e nella leadership. La seconda, invece, era costituita da una schiera di personaggi che già allora lavoravano per accorciare la catena di comando e che sfruttavano la crisi politica per sganciarsi dai vincoli dei militanti e degli elettori fidelizzati. Tragicamente queste due correnti politiche convergevano sull’idea che un sistema maggioritario avrebbe garantito meglio i loro rispettivi obiettivi: gli uni pensavano che i partiti sarebbero stati costretti con il collegio uninominale a misurarsi con il corpo elettorale e avrebbero perciò scelto candidati qualificati e popolari; gli altri, invece, ritenevano che grazie al collegio uninominale sarebbe stato più facile fare a meno del partito pesante e manipolare l’elettorato.



Quest’ultimo orientamento è forse quello in cui si riconosce Ceccanti, che propugna coerentemente la riforma costituzionale e l’Italicum, contravvenendo persino all’ordine di scuderia che chiede di non mettere insieme la legge elettorale e la riforma costituzionale.  

Invero, il leit motiv di questi due atti è il medesimo: la riduzione degli spazi di democrazia sia a livello locale che a livello centrale. Con la riforma si voterà meno su entrambi i livelli; inoltre, si costruisce un Senato che, per i termini entro cui deve operare e per i modi che sarebbero previsti, non potrebbe di fatto esercitare le funzioni che formalmente gli sono attribuite. 



Perché farlo, allora? Sarebbe stato più semplice o abolirlo o ridurre alla metà i parlamentari di entrambi le Camere. 

E invece no! L’obiettivo è di riempire il Senato dei presidenti delle Regioni, per concedere loro l’immunità parlamentare, in modo che possano gestire le Regioni senza pericoli e soddisfare i bisogni del Capo, com’è accaduto — salvo poche eccezioni — con il referendum sulle trivelle in cui i presidenti delle Giunte regionali hanno minacciato i Consigli regionali che avevano osato disturbare il manovratore.

Anche l’idea di maggioritario che si è diffusa, di cui l’Italicum sarebbe solo l’ultimo esempio, è alquanto drogato. Infatti, meccanismi elettorali perversi, come quelli del 1993 e del 1999, escogitati per razionalizzare il sistema di governo locale e regionale, vengono gestiti in contesti politici profondamente diversi e risultano rivolti contro i cittadini.

Adesso, però, i cittadini sembrano stanchi di essere presi in giro e i Sì alla riforma stentano a prendere quota, nonostante la lunga campagna elettorale, ancora senza un termine, e la profusione di mezzi e risorse, di appoggi considerevoli come quelli di Confindustria, delle banche, dei petrolieri, delle assicurazioni, di importanti trust, e ancora con gli spot della Merkel, di Obama, Jp Morgan, eccetera.

Inoltre, tutti i sondaggi indicano che il Pd al ballottaggio perde con il M5s, come del resto è accaduto a Roma con la Raggi, e che Berlusconi non sa più cosa inventarsi per favorire Renzi.

Mi sembra che proprio per il Pd sia un vero suicidio sostenere che ci dobbiamo tenere il ballottaggio così com’è, puntando sostanzialmente sulla disaffezione al voto dei cittadini. Non a caso Renzi, anche se non del tutto convinto, ha dato la sua disponibilità a delle modifiche della legge elettorale.

In ogni caso, oggi non sappiamo come sarà organizzato il sistema politico alle prossime elezioni: non sappiamo se avremo un centrodestra efficiente, né se la consistenza del Pd sarà la stessa o vi saranno delle scissioni e neppure se il M5s ha imparato a dialogare, come sta facendo in questi momenti, con una parte della sinistra. 

Quello che è certo, invece, è che di fronte alla frammentazione, l’unica vera garanzia democratica è proprio il sistema delle coalizioni fondato sul compromesso tra forze politiche diverse, che è cosa diversa dalla “compromissione”. 

Altrimenti sarebbe il governo di una minoranza che, in quanto tale, è sempre fragile. 

Si eviterebbe così di cadere preda di onnipotenza e di finire nelle mani di interessi particolari; le tavole di valore dei diversi partiti coalizzati assicurerebbero l’equilibrio nella realizzazione delle politiche e tutti si preparerebbero per apparire bene agli occhi dei cittadini, favorendone la partecipazione.

Certo bisogna negoziare e discutere anche per mesi, com’è accaduto in Germania e ora in Spagna; ma il negoziato è un fatto nobile; è, forse, l’unico modo che ci resta per impedire che forze antidemocratiche e populiste abbiano il sopravvento. 

Non è poco.

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