“Si è arrivati a questa riforma pasticciata e opaca perché invece di ricercare il largo consenso si è preferito imporre la volontà di una maggioranza non rappresentativa della nazione”. A dirlo è il generale Fabio Mini, già capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e comandante della missione Kfor in Kosovo dal 2002 al 2003, che in questa ampia conversazione spiega al sussidiario il suo no, deciso e motivato, e — ci tiene a sottolinearlo — costruttivo, ad una riforma costituzionale che sancisce “la corsa al potere di una maggioranza di palazzo”.
Generale Mini, cosa pensa della riforma costituzionale voluta dal governo Renzi?
Sia chiaro che non sono contrario alle riforme costituzionali. Respingo perciò il sillogismo che chi vota Sì vuole un’Italia “efficiente, stabile e responsabile, e quindi capace di esercitare il suo ruolo in Europa” e chi vota No vuole “un’Italia idiosincratica ed eccentrica, eternamente prigioniera delle proprie ombre”. E’ un sillogismo apodittico che squalifica sul piano intellettuale chi lo propone e offende chi non lo condivide. E’ il primo segnale che la riforma proposta intende dividere gli italiani.
Ma lei è contrario, non è così?
Sì, sono contrario a “questa” riforma, confusa nella sostanza e scorretta nella metodologia, perché voglio veramente un’Italia efficiente, stabile e responsabile. Mi schiero con il No proposto da un movimento di cittadini e non da un partito, mi riconosco negli idealisti e non negli ideologi, nelle persone responsabili che pensano al futuro dell’Italia unita e non in coloro che operano per dividerla ulteriormente e che intendono affondare la nave per assumere il comando di una scialuppa. Ma respingo l’obiezione che il No sia improponibile perché voluto anche da partiti e movimenti d’ispirazione fascista, veterocomunista, populista e quant’altro, che vogliono soltanto la caduta del governo.
Perché la respinge? Che cosa le piace, o non le piace, del No?
Non condivido le loro finalità, ideologie e prassi ma riconosco legittime e fondate alcune delle loro motivazioni. Sono infatti queste comuni motivazioni a fare del No un fronte trasversale espressione di molte anime, e non di un pensiero unico, e quindi nel suo complesso essenzialmente democratico. Inoltre, se il No di altri gruppi tende solo allo sfascio del governo bisogna riflettere sulle ragioni e le responsabilità di tale atteggiamento. In questi ultimi anni il dissenso democratico non ha avuto né attenzione né alternativa onorevole. Quando quasi mezzo Parlamento è costretto a lasciare l’aula per non essere coinvolto in uno schema che non condivide e i restanti festeggiano come allo stadio, si celebra l’effimera vittoria di una parte e si detta il necrologio della democrazia.
Entriamo nel merito. No a questa riforma perché?
Voto No perché le ragioni addotte per vararla sono insussistenti e contraddittorie. In alcuni casi sono insulti all’intelligenza non solo dei costituzionalisti, ma di qualsiasi cittadino in grado di leggere e scrivere. Riprendo alcune ragioni già espresse da altri, con le quali concordo in pieno, ed esprimo le mie personali.
Prego.
Ci è stato detto che questa riforma, “dopo un dibattito trentennale infruttuoso e controverso”, era diventata improcrastinabile. Non ci è stato detto che la controversia non derivava dalla carenza di norme ma dalla necessità (riconosciuta dalle stesse commissioni bilaterali e da tutti gli altri proponenti di riforme alla Costituzione) di procedere alle riforme con il più largo consenso delle forze politiche. Lo stesso meccanismo dell’articolo 138 della Costituzione, prevedendo più esami incrociati tra Camera e Senato, cauti passi successivi e tempi di riflessione intendeva promuovere un largo consenso. Tant’è che nel caso esso fosse venuto a mancare, si prevedeva la possibilità di ricorrere alla consultazione diretta del popolo.
Adesso invece?
Ora si è arrivati a questa riforma pasticciata e opaca perché invece di ricercare il largo consenso si è preferito imporre la volontà di una maggioranza non rappresentativa della nazione. Abbiamo assistito a manovre di qualsiasi genere, a ricatti politici, disinformazione, emarginazione dei dissidenti o soltanto dei non favorevoli, sostituzione di membri di commissioni parlamentari scomodi, agitazione di spauracchi, promesse populistiche, ghigliottine, canguri, sedute fiume e molto altro e di peggio è avvenuto nell’ombra. La forma non è stata violata, ma il metodo si è rivelato ingiusto e scorretto perché nel frattempo la rappresentatività parlamentare e governativa era passata, con successive “porcate” e “leggi incostituzionali”, dal sistema proporzionale a quello maggioritario a sbarramento. E soprattutto perché le finalità della riforma erano e rimangono tanto confuse da giustificare ogni sospetto di manipolazione.
In passato sono state promulgate leggi costituzionali senza difficoltà.
Appunto; ma quando gli obiettivi delle riforme costituzionali erano chiari, puntuali e condivisi. Dal 1948 ad oggi sono state approvate 38 leggi costituzionali tra cui provvedimenti importanti come le pari opportunità, l’abolizione della pena di morte anche per i reati militari in tempo di guerra, il voto degli italiani all’estero, l’estradizione per delitti di genocidio, il giusto processo, il pareggio di bilancio eccetera. I problemi si sono posti quando le riforme si presentavano strumentali o soltanto imparziali e soprattutto quando rispecchiavano interessi di potere particolari e clientelari.
Una delle ragioni del Sì è decidere più in fretta. La “democrazia decidente” di Renzi.
Ci è stato detto: “Abbiamo bisogno di capacità decisionali e di procedimenti legislativi più rapidi e non di un sistema immaginato e pensato a quei tempi in cui forse si credeva si dovesse decidere raramente” (Maria Elena Boschi, l’Unità, 12 marzo 2016, ndr). Ebbene, dobbiamo ricordare che la rapidità non è sinonimo di migliore qualità o efficacia dei provvedimenti. Anzi. Siamo ancora impantanati nei problemi creati dalla fretta dei governi e dalle loro false priorità. Inoltre, il sarcasmo fuori posto è sempre una forma di denigrazione e in questa frase è chiara la volontà di delegittimare un’Italia che i denigratori non hanno né conosciuto né studiato.
E invece, generale Mini?
Bisogna perciò ricordare loro che quel sistema immaginato nel 1948 è stato realizzato e ha preso le decisioni più difficili della nostra storia. Con successi e insuccessi abbiamo recuperato credibilità internazionale, risollevato l’economia, affrontato emergenze naturali senza scandali, combattuto il terrorismo e la mafia, ristrutturato le forze armate e le abbiamo spedite in ogni angolo della Terra a rappresentare l’Italia, e abbiamo raggiunto il quarto posto fra sette delle maggiori economie (G7). Poi, con una breve stagione di “decisionisti” e fantasiosi innovatori abbiamo decuplicato il debito nazionale, aumentato la disoccupazione e il precariato e diminuito la nostra competitività. Infine, grazie alle virtù taumaturgiche del mercato e dei tecnocrati abbiamo centuplicato il debito e siamo stati malamente coinvolti in una crisi che non ci avrebbe riguardato così da vicino se non avessimo avuto immaginifici finanzieri di stato e speculatori privati rivolti esclusivamente allo sfruttamento delle bolle finanziarie.
Insomma, i veri realisti erano quelli di ieri, non di oggi.
Oggi andiamo a votare per una legge veramente immaginaria e siamo più deboli in Europa, sminuiti nella capacità di sicurezza, succubi delle decisioni altrui, allontanati dai tavoli di discussione globali ed europei, ultimi nella graduatoria del G7, incapaci di provvedere al rilancio dell’economia e costretti ad elemosinare non denaro (che nessuno regala), ma la possibilità di fare altri debiti. Non si può addossare la responsabilità di tutto questo solo al sistema bicamerale o ai governi del passato.
Negli ultimi dieci anni sono state approvate più leggi richieste dal governo che quelle promosse dal Parlamento.
Non solo. In alcuni periodi delle legislature passate e di quella presente si è legiferato con le procedure di urgenza su cose che non erano affatto urgenti, si sono blindate leggi e leggine d’iniziativa governativa (109 in questa legislatura) facendo ricorso eccessivo ai colpi di maggioranza, alle deleghe al governo (13 a quello attuale su temi fondamentali come lavoro, scuola, comunicazione pubblica eccetera) e al voto di fiducia al governo (ben 56 volte negli ultimi due anni e mezzo). Il 4 dicembre non andiamo a votar e per migliorare, ma per istituzionalizzare un Parlamento defraudato del potere legislativo e assoggettato al potere esecutivo molto di più di quanto non lo sia già ora.
Secondo lei la “governabilità” non è una cosa positiva, un valore istituzionale e politico?
Questo termine è ormai un dogma. Ma non è un’invenzione di oggi. Il tema della governabilità è stato sollevato per primo da Bettino Craxi (fine anni 70) quando con i voti di un partito largamente minoritario voleva guidare per sempre l’intero paese. Non a caso parlava di governi di legislatura (che stessero al governo “certamente” almeno per turni di 5 anni) o di governo presidenziale. Ma i governi erano comunque coalizioni di grandi partiti che godevano anche dell’appoggio esterno di alcune opposizioni. La democrazia non era in pericolo, semmai era evidente l’insofferenza di un leader carismatico nei confronti dei grandi partiti. Lo stesso tema fu affrontato da Spadolini nel 1982 in maniera geniale anche se inattuabile. Anche lui leader carismatico, esponente di un partito abbondantemente minoritario, ma giuridicamente molto più preparato di Craxi, individuò il collante fra le coalizioni non nell’egemonia del partito più numeroso, ma in una presunta forza istituzionale del presidente del Consiglio.
Di fatto, sostituiva la forza dei partiti con la forza del ruolo di capo del Governo.
Sì. Intendeva istituire il “regime del primo ministro” al posto del “regime dei partiti”. “Perché — diceva — il governo della Repubblica deve governare anche per chi gli vota contro, anche per i senza partito, anche per gli extraparlamentari, anche per chi ancora non vota e voterà domani”. Era una proposta al limite della liceità costituzionale e valeva finché ci si credeva. Ma lui era Spadolini e governò a modo suo senza modificare una sola virgola della Costituzione. E se fosse stata necessaria una riforma, “Il governo — disse Spadolini — ricercherà sempre con l’ opposizione lo “idem sentire de Constitutione”. Questa riforma è lontana anni luce dall’idem sentire di Spadolini e di tutti i padri costituenti.
Le cito adesso un passo della relazione illustrativa al disegno di legge costituzionale presentato dall’esecutivo al Senato l’8 aprile 2014. Si dice che la riforma è necessaria per realizzare “un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione europea, Stato e Autonomie territoriali”…
Sa in cosa si concreta quel “complesso sistema di governo multilivello”? Esso implica lo “spostamento del baricentro decisionale connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea e, in particolare, l’esigenza di adeguare l’ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l’altro, l’introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa); le sfide derivanti dall’internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale”. Sono parole testuali della proposta, ma più che un proposito, lo sproloquio sembra una captatio benevolentiae nei confronti dell’Europa. Una inutile piaggeria, che non ha più senso visto che l’integrazione europea è più lontana che mai, la governance europea è in crisi grazie anche agli atteggiamenti estemporanei del nostro governo (Bratislava) e che nella cosiddetta riforma non c’è nulla che risponda alle sfide “dell’internazionalizzazione economica”.
Noi vogliamo cambiare la nostra carta, ma qual è il contesto nel quale lo stiamo facendo, secondo lei? Come è mutato?
Oggi in campo internazionale siamo ad un livello di guerra fredda molto vicino alla guerra calda tra blocchi contrapposti, come nel 1946, in Europa, in Asia e quindi in tutto il mondo. Gli equilibri stanno cambiando rapidamente ed in modo pressoché incontrollato. Gli stessi Stati Uniti non sanno dove andare oggi, e domani forse scopriranno di non voler e non poter andare da nessuna parte.
E in Italia?
Oggi in Italia siamo sicuramente in piena guerra fredda interna. Da vent’anni siamo prigionieri di una spaccatura fra destra e sinistra che ancora parla di comunismo e fascismo. Grazie all’arroganza di partiti personalizzati il paese è spaccato apparentemente in due, ma sostanzialmente in cento pezzi. I partiti hanno interpretato l’articolo 49 della Costituzione come l’investitura di ciascuno di essi alla rilevanza costituzionale. Il segretario di un partito si sente e di fatto è stato considerato dagli stessi presidenti della Repubblica come un “organo costituzionale”. In realtà l’articolo 49 stabilisce la libertà dei cittadini di associarsi in partiti ma non assegna ad essi altra funzione se non quella di permettere che i cittadini concorrano con metodo democratico a determinare la politica nazionale. La rilevanza costituzionale è dei cittadini e non dei partiti. In realtà i tre partiti maggiori del panorama italiano non assicurano affatto il metodo democratico, ma quello monocratico, o al massimo oligarchico, autoritario e personalizzato. Non danno alcuno spazio di dissenso al loro interno e sono da tempo impegnati in una delegittimazione reciproca che ha prodotto la sclerosi delle strutture interne e la completa sfiducia dei cittadini nella politica in generale.
Ci è stato detto che questa riforma ha rispettato tutti i parametri costituzionali e democratici.
No. In realtà, l’iter di questa riforma, come quella bocciata nel 2006, è stato caratterizzato dalla prevalenza del metodo “a colpi di maggioranza”, abbandonando l’equilibrio previsto dalla costituzione tra leggi “consensuali” e “maggioritarie”. Si è invece rafforzata la presunta equivalenza fra principio democratico e principio maggioritario. Le modifiche alla Costituzione o alla forma di governo e della rappresentanza (come nel caso della legge elettorale) scaturiscono dalla convenienza della maggioranza di turno: nel periodo 2000-2015, ben nove (su dieci) leggi di revisione della Costituzione sono state approvate con i soli voti della maggioranza parlamentare, senza cercare larghe intese all’interno delle forze. Abbiamo assistito a repentini cambi di orientamento e attivo schieramento di politici, testimonial, cattedratici e interi gruppi di potere, anch’essi confusi e astiosi o palesemente interessati a mostrarsi compiacenti. Simili cambiamenti di rotta non possono che destare sospetti sulle lusinghe o pressioni che li hanno determinati.
Eppure, Renzi continua a dire che questa riforma non altera le istituzioni democratiche.
No; questa riforma nega e offende le istituzioni democratiche: nei fatti stravolge l’impianto istituzionale dello Stato aumentando l’arbitrio individuale, o di un gruppo, e l’arbitrio del potere in generale. Il mio non è un giudizio teorico o di principio. Come uomo, soldato e cittadino con oltre 46 anni di servizio nell’ambito di un’istituzione fondamentale come le forze armate, deputate alla difesa della patria, anche in guerra, voto No ad una riforma che sottrae al Parlamento la decisione sulla più drammatica evenienza di uno Stato: la dichiarazione di guerra. La norma proposta indica infatti nel Governo, attraverso la sua ovvia e artificiosa maggioranza monocamerale, il responsabile di tale decisione.
Sembra però di parlare di una cosa lontanissima sul piano pratico, di una evenienza della prima metà del secolo scorso.
E’ vero che può sembrare ininfluente: nessuno più dichiara apertamente la guerra, ad eccezione degli Stati Uniti che ormai scendono in guerra per ogni cosa. Ma anche loro, pur chiamando guerra qualsiasi sforzo interno ed internazionale, pur individuando nemici in ogni interlocutore, pur usando gli strumenti di guerra come prima risorsa d’emergenza e pur avendo inventato la guerra preventiva che non previene ma anzi anticipa la guerra, sono ben attenti ad evitare con cura qualsiasi dichiarazione formale di guerra. Oggi, specialmente da parte dei paesi europei e della Nato, la guerra si fa senza dichiararla o semplicemente cambiandone il nome. E comunque neppure l’impegno della Nato nella difesa collettiva (articolo 5 del Trattato) costringe in modo automatico ad intervenire con le armi. Ogni paese membro può (e deve) scegliere in che maniera contribuire alla difesa collettiva. Se la norma che equipara la dichiarazione di guerra a qualsiasi altro atto amministrativo può sembrare ininfluente sul piano pratico, non lo è affatto sul piano istituzionale e della filosofia del diritto. In questo caso, l’abolizione del bicameralismo perfetto è la chiara manifestazione della volontà di banalizzare il ruolo delle istituzioni a partire dall’atto più drammatico delle loro funzioni: la deliberazione sulla guerra. Il parlamento riformato è squilibrato a favore della Camera e questa, per effetto della legge elettorale maggioritaria e dei premi di maggioranza esagerati, è squilibrata a favore del governo. Di fatto, il nuovo parlamento e lo stesso governo cessano di essere organi rappresentativi di tutto il paese e perdono la qualità fondamentale per autorizzare la guerra in nome del popolo italiano e quindi anche la facoltà di assumere ogni altra decisione che comporti analoghi sacrifici per tutta la popolazione e il trasferimento di risorse, poteri e funzioni da una istituzione all’altra.
Insomma, se tali squilibri consentono di accelerare le decisioni del governo in nome della cosiddetta governabilità…
Non è detto che favoriscano solo i provvedimenti giusti ed equanimi, adottati in nome e per conto del bene pubblico. Abbiamo continuamente esperienze di provvedimenti “ad personam” e a favore di gruppi di potere e di avventure che non hanno nulla a che vedere con il bene pubblico. Ora veniamo chiamati ad avallare un Senato riformato che non è più una istituzione, ma una costosa conferenza saltuaria di amministratori locali la cui legittimazione nell’incarico “complementare” dipende dall’arbitrio di chi li ha designati.
Dunque salta l’equilibrio dei contrappesi istituzionali?
E’ evidente. L’eliminazione di tale equilibrio conduce all’arbitrio del potere del partito di maggioranza del momento. Ma voto No anche al vilipendio delle istituzioni parlamentari (e non solo) esercitato da un partito che designa parlamentari e senatori non per esigenze di rappresentatività, ma per clientelismo e corruzione. Voto No perché non voglio essere rappresentato in parlamento e nelle altre istituzioni nazionali ed europee da personaggi ignoranti, compromessi, immorali e pregiudicati soltanto perché nominati dal boss di turno. Abbiamo già vissuto il tempo del disprezzo nei confronti delle nostre istituzioni quando ad occuparle venivano designati amici, clienti e compagni e/o compagne d’alcova. Me ne sono vergognato profondamente quando in campo internazionale, politico e militare, si lanciavano battutacce sui nostri governanti. Voto No perché ciò non si ripeta. E comunque non si ripeterà con il mio sostegno o la mia indifferenza.
E cosa ne pensa, invece, dello stile fatto proprio del capo del governo? E’ la cosiddetta personalizzazione. Ma ancor prima, nella primavera scorsa, si è cominciato facendo circolare appelli da sottoscrivere, nelle università e fuori.
Ben prima della decisione di ricorrere al referendum, il governo intero ha occupato tutti gli spazi di comunicazione tramutando il legittimo sostegno ad una propria proposta in bagarre affaristica e campagna ideologica a dispetto e scapito dell’equilibrio e dell’unità nazionale. Con il ricorso al referendum, la consultazione si è trasformata in una sfida tra Sì e No a prescindere da che cosa significassero. C’è stata la conta degli amici e dei nemici, dei clienti riconoscenti e dei candidati a posti e poltrone accondiscendenti. La giusta perorazione della causa riformistica è stata volutamente personalizzata fino a farla diventare una scommessa sulla stessa sopravvivenza del governo. Come tutte le scommesse è stato un gioco, un azzardo, un “bluff”, un rischio e un ricatto sostenuti da una mobilitazione mediatica senza precedenti. Gli spazi d’informazione pubblica, che sono una risorsa pubblica, sono stati spesi (anche in senso economico) solo per fare marketing politico.
Generale, al No si obietta di non essere costruttivo, di essere distruttore in partenza. Gran parte della cosiddetta moral suasion del premier si basa su questo sentimento.
E’ disfattismo non volere che il mio Paese rimanga intrappolato in un sistema che assegna i poteri dello Stato ad una maggioranza risicata e faziosa, frutto dell’allontanamento dei cittadini dalla politica, senza nessun organo di controllo e bilanciamento dei poteri? Voto No ad una riforma che spacca il paese e prelude ad una frattura ancora più ampia e pericolosa fatta di rigetto delle opposizioni, esclusione delle minoranze e ghettizzazione delle intelligenze non allineate: tutti segni storicamente premonitori di guerra civile. Soltanto con il No si può pensare di rettificare questo stato di fatto e avviare la stagione delle riforme equilibrate, condivise ed efficaci.
Quindi non è che al No manchi una prospettiva, come sostiene il presidente del Consiglio.
Al contrario. Votare No significa che il governo, qualunque esso sia, e le istituzioni nazionali a partire dal 5 dicembre devono dedicarsi a risolvere i problemi strutturali che gravano sulla nostra nazione, i problemi della ripresa economica, di compattazione sociale e di disaffezione politica, e devono formulare finalmente un progetto per riunire i cittadini italiani e le forze politiche attorno ad una Costituzione rinnovata ma condivisa. Voto No oggi per avere domani (e non dopodomani) la possibilità di vedere una riforma seria e corretta.
Non crede invece che questa sia l’ultima occasione per fare le riforme?
Non sono d’accordo: è soltanto l’ultima occasione per fare questa riforma. Occorre invece accantonare quanto prima i tentativi di chi vuole stravolgere completamente l’assetto istituzionale del nostro Stato. E’ con il Sì, invece, che parte la vera corsa al potere assoluto di una maggioranza di palazzo.
E del quesito referendario cosa pensa? Contro di esso si stanno pronunciando i giudici nei tribunali.
Quel quesito chiede all’elettore di esprimersi con un monosillabo su un insieme di elementi disomogenei, appartenenti a materie molto diverse e dagli effetti indecifrabili se non indagati dal punto di vista tecnico-giuridico. Inoltre, alla prima consultazione referendaria sulla Costituzione della nostra storia, nel 2001, andò a votare solo il 34 per cento degli aventi diritto e i voti validi furono per il 64 per cento favorevoli alla modifica costituzionale: erano appena il 21 per cento degli aventi diritto. Alla seconda, quella del 2006, votò il 52 per cento degli aventi diritto e la legge voluta da Berlusconi fu respinta dal 61 per cento dei votanti: appena il 32 per cento degli aventi diritto… non si può ricorrere sempre ai referendum per colmare le incapacità della politica.