La nuova premier inglese, Theresa May, la leader del Tory, il partito conservatore, ha dettato i tempi per l’uscita della Gran Bretagna dalla Unione Europea. Lo ha fatto parlando alla conferenza annuale del Partito conservatore, a Birmingham, e anche alla televisione britannica, la BBC. Il Regno Unito attiverà l’articolo 50 del Trattato di Lisbona entro il marzo del 2017. Con questa scadenza, l’uscita definitiva potrebbe concludersi nel 2019.



“Ora che sanno come sarà il nostro calendario — ha dichiarato la May —, sebbene senza una data esatta, ma sapendo che accadrà nel primo trimestre del prossimo anno, possono preparare del lavoro, perché una volta attivato, ci sia un tranquillo processo di transizione. Non è solo importante per il Regno Unito, ma per l’Europa nel suo insieme, che possiamo farlo nel modo migliore”.



A ben guardare, c’è una determinazione nelle dichiarazioni della May che non sembra mostrare alcun rimpianto, anche se è stata una timida sostenitrice del “remain” nel referendum britannico del 23 giugno scorso.

Non c’è, a questo punto, nessun “ritiro improvviso e unilaterale”, come non si vedono tracce di ripensamento, che pure, teoricamente, potrebbero ancora avvenire, nella decisione britannica del dopo-Brexit. Theresa May ha lanciato anche un avvertimento allo Scottisch National Party, il maggiore partito scozzese, che dovrà rinunciare all’ambizione di far rimanere la Scozia nell’Unione Europea: “Il Regno Unito lascerà l’Unione Europea tutto insieme. Non esiste un opt out per la Brexit”.



La cosa non sorprende ovviamente, non è una novità, dato che gli organismi internazionali, una folla di economisti e di analisti politici hanno già fatto da tempo previsioni, non si comprende bene con quale criterio, sulle conseguenze dell’uscita della Gran Bretagna. Tuttavia, se si guarda la situazione europea nel suo complesso, anche queste scontate scadenze della Brexit danno il segno della difficile realtà che sta vivendo l’Europa, della sua oramai riconosciuta crisi.

Mentre infatti il Regno Unito annuncia le sue “pratiche” di uscita, ci sono quattro Paesi del vecchio “blocco comunista” dell’Est che sono in aperto dissenso con Bruxelles sulla questione dell’accoglienza degli immigrati e chiedono una revisione dei trattati. Sono Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, il cosiddetto Gruppo di Visegrad.

Aggiungiamo a questo dissenso il dissidio che si è aperto tra l’Italia e l’asse franco-tedesco, dopo il vertice di Bratislava. I contrasti sono ormai aperti, spesso duri, tra il leader italiano, Matteo Renzi, da un lato e la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il presidente francese, François Hollande, dall’altro. Le conferenze stampa a tre sono ormai un ricordo e le dichiarazioni che si incrociano sono sempre più pesanti.

E’ come se si sia innescato nel giro degli ultimi mesi una sorta di “senso di autodistruzione” all’interno della comunità europea. E malgrado le antiche aspirazioni, la volontà di ribadire una vocazione europeistica, negli ultimi mesi il tessuto che teneva insieme l’Europa sembra lacerarsi sempre di più.

Abbiamo parlato di “ultimi mesi” e potremmo stabilire la Brexit come punto di partenza di un processo di lenta disgregazione, ma in realtà quello che ha fatto più impressione è stata l’escalation avvenuta dalla riunione sulla portaerei Garibaldi, dopo la visita alla tomba di Altiero Spinelli a Ventotene, uno dei simboli dell’europeismo, fatta dei leader dei tre Paesi più importanti dell’Unione: Germania, Francia e Italia. Questo avveniva quasi alla fine di agosto e doveva essere proprio la risposta che “L’Europa va avanti nonostante la Brexit”.

Tuttavia, gli ultimi episodi, anche se sono il sintomo più evidente di una “malattia”, sembrano in realtà le conseguenze di una lunga sequenza di errori che vengono da lontano. Chi non ricorda le dichiarazioni fatte dal Cancelliere tedesco Helmut Schmidt, prima di morire, sulla politica poco “europeistica” di Angela Merkel e del suo terribile rigorista Wolfgang Schäuble? Le considerazioni che faceva Schmidt sono solo un esempio delle tante critiche che sono arrivate in questi anni alla comunità europea.

A ben vedere, se si considerano esattamente i tempi e si cercano le cause di una crisi che in molti ormai ammettono senza reticenza, bisogna ritornare agli anni immediatamente seguenti alla grande crisi finanziaria, scoppiata negli Stati Uniti nel 2007 e sbarcata in Europa l’anno successivo.

E’ da quegli anni, dalla crisi economica mondiale, che l’Europa ha imboccato una strada che sembra portarla lentamente alla disgregazione. E’ del resto inevitabile che una comunità che fonda i suoi legami sostanzialmente su una moneta unica, tralasciando e non cercando neppure una unità di qualsiasi altro carattere, soprattutto politico e istituzionale reale, non di facciata come adesso, sia destinata ad andare lentamente in sofferenza, se non in agonia, al primo momento di difficoltà che deve affrontare.

Proviamo a farci una domanda: il problema si riduce tutto alla accettazione o meno della politica di austerità? E’ certamente questa una scelta che divide profondamente, non solo l’Europa. Ma la durezza con cui la Germania e l’asse franco-tedesco ha insistito su questa scelta ha determinato, in Europa, una spaccatura profonda, che difficilmente potrà essere in breve risanata. Le conseguenze che la politica di austerità ha creato in alcuni Paesi difficilmente sarà dimenticata.

Tuttavia anche l’austerità è solo un elemento della divisione interna all’Europa. Si deve aggiungere, a questa scelta, una politica sull’immigrazione che penalizza di fatto solo alcuni Paesi (Italia e Grecia innanzitutto) e suscita divisioni all’interno dei singoli stati. Occorre infine constatare che questo tipo di europeismo, basato su moneta ed economia, ha provocato alla fine solo una mancata e reale integrazione tra Stati membri, prima ancora che la speranza di arrivare a un’integrazione con le popolazioni che dall’Africa e dall’Asia si spostano, per diverse ragioni, verso l’Europa.

Realisticamente, ci si trova di fronte a una continua erosione dello stesso senso di comunità. E di fronte a questa crisi, che si aggrava mese dopo mese, come si può reagire? Gli appelli non bastano più. I leader europeistici che fanno questi appelli alimentano solo i dissensi e i voti dei partiti euroscettici.

Basterebbe solo una profonda revisione dei trattati? Si può lasciar incancrenire la crisi contrapponendosi su interessi di bottega, senza tenere conto di un continente che dovrebbe avere un destino comune nel grande processo di globalizzazione?

Il rischio è che da una crisi come questa si esca con contrapposizioni che fanno pensare ad altri periodi storici, che sono poi state la premessa di situazioni conflittuali. C’è qualcuno che, come europeista, avrà il coraggio di denunciare apertamente questa situazione? Sarebbe già un passo avanti, rispetto a questo lento tran-tran, dove ci si riunisce per stilare comunicati che non hanno alcun reale valore e si moltiplicano solo i motivi di contrasto.