La tragedia di questo terremoto infinito frena per alcuni giorni, o forse solo per alcune ore, il dibattito politico, che, appena è possibile, entra sempre in una fase più calda, quella dell’ultimo mese prima della scadenza del referendum del 4 dicembre. Ma in realtà, a parte il dramma che l’Italia sta vivendo per queste terribili pause, sembra che la votazione sulla riforma costituzionale stia caratterizzando un’intera stagione della politica italiana e arrivi anche, per un’incredibile gioco di sponda, a compromettere, a mettere in gioco, a ridiscutere i rapporti tra l’Italia e l’Unione Europea.



E’, di fatto, una campagna elettorale infinita. che dura da mesi e che provocherà spaccature profonde e probabilmente colpi di scena anche dopo il risultato. Nessuna apocalisse, sicuramente, ma solchi profondi tra i partiti del fronte del Sì e quelli del fronte del No e all’interno degli stessi partiti. Non è improbabile che alla fine di una simile “rissa” si arrivi a ridisegnare la mappa della politica italiana e rapporti diversi con l’Unione Europea.



Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, aveva finito venerdì sera un durissimo confronto televisivo con un simbolo della “prima repubblica”, l’ottantottenne Ciriaco De Mita, e il pomeriggio dopo si è presentato in piazza del Popolo a Roma per dirigere la manifestazione del Sì di fronte a una platea che è stata disertata dalla sinistra del Pd, fatta eccezione per Gianni Cuperlo, un “pontiere” poco convinto del suo stesso ruolo.

Difficile stabilire “l’eleganza istituzionale” di un dibattito di “uno contro tutti”, e di un solo uomo che controbatte alle critiche della riforma e allo stesso tempo dirige la propaganda. Ma forse questo è solo un dettaglio di osservatori della vecchia politica, non di quella che riesce a coinvolgere oggi almeno la metà (fortunatamente!) degli italiani.



Il problema è che la lunga campagna elettorale referendaria sta svelando, sta quasi mettendo a nudo tutte le contraddizioni di questa fase politica italiana.

Si è partiti fin dai tempi del governo Letta, ma anche prima con il governo Monti, con la necessità di un risanamento della finanza pubblica italiana, con l’obiettivo di uscire dalla crisi e di vedere “la luce in fondo al tunnel”. Il professor Monti diceva, alla fine d’agosto del 2012 intervenendo al Meeting di Rimini, di intravedere una “luce in fondo al tunnel”. Risparmiamoci, per carità di patria, i commenti che fecero alcuni economisti su quella frase, non proprio profetica. Ma eravamo ancora in una fase di speranze e di fiducia nell’Europa e nella politica dell’asse franco-tedesco che aveva Sarkozy-Merkel come protagonisti.

Dire che la realtà economica sia migliorata da quei tempi significa rischiare i fischi e gli insulti di qualsiasi piazza.

Renzi, catapultato a Palazzo Chigi al posto di Enrico Letta, ha seguito una politica europeistica fino alla grande vittoria del Pd alle europee del 2014, uscendo alla fine come il partito della sinistra di tradizione socialista più grande d’Europa. In quel momento ha pensato alla grande riforma costituzionale italiana (che tanti poteri esteri gli chiedevano) cercando anche di trovare un accordo con il centrodestra. 

Il presidente del Consiglio ha fatto in questo modo una duplice scommessa: una ripresa economica, o dei segnali confortanti e incisivi di autentica inversione, nel giro di alcuni mesi, e un collegamento politico con il centrodestra per diventare il “pacificatore” di una dura contrapposizione, cominciata nel 1994. In modo anche di avere consensi da una parte consistente dell’elettorato moderato. Una operazione alla Tony Blair.

Renzi di fatto queste due scommesse le ha già perdute, anche se vincesse il referendum del 4 dicembre.

Vediamo in dettaglio. La crisi economica non si è affatto risolta, l’area della povertà si è allargata, la disoccupazione ha sempre livelli altissimi, il debito è cresciuto fino al 133 per cento e i dati che si possono definire positivi sono talmente piccoli da essere spesso insignificanti.

Così, il consenso elettorale Renzi lo ha perduto alle elezioni amministrative e il centrodestra non si è trasferito sotto la sua “protezione”, ma si è frantumato in diversi tronconi: una parte resta una sorta di testimonianza berlusconiana, una parte non va più a votare, un’altra ha scelto il grillismo. In più, si è spaccato anche il Pd, facendo perdere a Renzi voti a sinistra.

Se si guarda la cronologia di questi fatti, si può notare che la riforma costituzionale, che pareva all’inizio quasi una formalità, anche se doveva passare attraverso un referendum, è diventata con il tempo una sorta di ordalia che ha spaccato in due il Paese.

A questo punto il discorso politico, costituzionale, economico ed europeo, è diventato un “polverone” dove tutti si accusano a vicenda e dove lo stesso Renzi sembra ripetere la storia di rappresentare un “partito di lotta e di governo” allo stesso tempo.

Visto che la perdita di consensi in Italia aumentava, Renzi ha letteralmente rovesciato il tavolo europeo, ribadendo la necessità di flessibilità, la revisione dei parametri, minacciando veti sul bilancio comunitario, mettendo in discussione il fiscal compact e ribadendo con Barack Obama la necessità di una politica economica espansiva, connotata come neokeynesiana, parola quasi “proibita” dal 1990 in avanti.

I rischi di questa scommessa perduta, comunque finisca il risultato del referendum del 4 dicembre, sono sia quello di una profonda divisione del Paese sia quello di una nuova spinta verso quell’intreccio di giustizialismo e dilettantismo, che ha caratterizzato sinora la politica dei grillini, e che è alla base della loro politica e probabilmente della svolta italiana del 1992. E’ quella politica che sta deludendo di già gli elettori del nuovo sindaco di Roma, Virginia Raggi.

Alcuni uomini della vecchia sinistra comunista e socialista dicevano di Renzi che fosse “un avventuriero”. Speriamo che non sia vero, perché i guai italiani si moltiplicherebbero. In ogni caso le contraddizioni della politica italiana di questi ultimi venticinque anni sono emerse tutte proprio con l’avvento di chi doveva essere il “rottamatore” della storia repubblicana.

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