Cinque anni fa si chiamava “spread”, adesso si chiama “in Italia non cambia mai niente”. Siamo alle solite: torna il “vincolo esterno”, lo spauracchio di un mondo cattivo, che da oltreconfine ci scruta severo, e aspetta i nostri passi falsi per farcela pagare o i nostri segnali di umile ravvedimento per darci ancora una prova d’appello e farci restare in serie A. È il nuovo tormentone del presidente del Consiglio, lanciatissimo nel bimestre di campagna elettorale per il “sì” alla sua riforma, incomprensibile ai più se non nel suo essere palesemente l’obiettivo al quale il presidente tiene di più, il che la rende di per sé infida a molti.



Renzi, nei discorsi degli ultimi giorni, sta sviluppando in molte forme diverse lo stesso contenuto: se dovesse prevalere il “no” alla riforma costituzionale, dall’estero tutti i nostri interlocutori – da quelli istituzionali come la Commissione europea o la Bce, a quelli privati come le grandi banche d’affari e i fondi d’investimento internazionali – ne dedurrebbero “che l’Italia non cambia mai”. E con questo ci illuminerebbero nuovamente con una luce di sfiducia. Spread alle stelle e pestilenze economiche varie.



Ma che consistenza ha questo teorema? Ce l’ha, e granitica (o meglio, ce l’avrebbe), solo nella misura in cui noi volessimo ancora accreditare l’idea che le autorità politico-economiche straniere e i poteri forti sovranazionali realmente desiderino il bene del nostro Paese. Allora sì che la loro delusione, in caso di sconfitta della riforma, sarebbe sincera, autentica, di buona lega. Ma l’evidenza di sette anni di crisi economica e di turbolenze politiche dimostra l’esatto contrario. L’Italia che davvero piace all’Europa “a trazione tedesca” non è un’Italia forte, economicamente ristabilita, del tutto in grado di competere con chiunque su qualunque mercato del mondo. Al contrario, è un’Italia debole e impastoiata, finalmente rassegnata a perdere le gare internazionali dove spesso invece oggi si ritrova tra i pochi a poter contendere il cammino a tedeschi e americani nelle grandi e grandissime opere. E dunque se il “no” al referendum contribuisse – come Renzi sostiene – a tenere l’Italia nel caos, tutti coloro che dal nostro caos intendono ricavare vantaggi, dovrebbero sotto-sotto gioirne.



Se invece vincesse il sì e passasse una riforma che rende più governabile il Paese accentuando di molto le possibilità – anzi, trasformandole in una certezza! – che il partito di maggioranza relativa abbia anche la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, per lo più nella quasi totalità occupati da fedelissimi designati del premier, beh… le entità internazionali interessate alla nostra scarsa efficienza dovrebbero in realtà preoccuparsi, e non agevolarci.

Insomma, la lettera autentica delle vicende italiane da parte degli osservatori e dei competitor stranieri va invertita rispetto al luogo comune benpensante. A meno di credere alle favole, la cronaca della crisi di questi ultimi otto anni dimostra che dei casi di Grecia, Spagna e Portogallo i tedeschi in primis ma anche, sia pure a debita distanza, francesi e inglesi si sono alquanto avvantaggiati. Lo stesso è già accaduto con la crisi italiana per come finora si è dipanata. 

E lo stesso accadrà in futuro, qualunque cosa accada. Che vinca il sì, perché sarà facile per i nostri concorrenti (concorrenti, dicasi, non partner) stranieri, strumentalizzare il rischio che, proprio grazie all’abnorme sistema del superpremio di maggioranza e del ballottaggio previsto dal connesso Italicum, il Paese finisca governato, nel 2018, dai temuti Cinquestelle; se vince il no, perché sarà facile per i medesimi teorizzare che non riusciremo mai più a recuperare efficienza governativa.

Un ragionamento semplicissimo, coerente – oltretutto – con la linea dura verso l’Europa che dopo i vertici fallimentari degli ultimi mesi proprio Renzi ha inaugurato con una grinta nuova, che non gli si conosceva. La grinta di chi non crede più alla favoletta di un’Europa leale e solidale… 

Ma allora, oggi, che senso ha riparlare di vincolo reputazionale esterno, quand’è chiaro che non sappiamo se doverci preoccupare di più di essere considerati troppo bravi o troppo brocchi?

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