Il 9 novembre rischia di diventare una data cabalistica, dove si concentrano diverse ricorrenze storiche. Nel 1989, proprio il 9 novembre, cadde il Muro di Berlino, ponendo fine allo scempio del socialismo reale, del blocco sovietico e del comunismo. Francis Fukuyama si fece prendere la mano e scrisse La fine della storia, non rendendosi conto che ne stava cominciando un’altra. Il Muro cadde senza che nessun “vopo”, le guardie della Germania dell’Est, si opponessero come avevano fatto sin dal 1960: sparando su chi fuggiva e uccidendo. Giorgio Napolitano, ancora esponente del Pci, quel giorno era a Bonn nell’ufficio di Willy Brandt per discutere, almeno, dell’apertura di un dialogo tra i comunisti italiani e i socialisti europei. Gli avvenimenti, di fatto, precedettero anche il dialogo, con notizie che arrivavano senza alcun controllo. Fu una svolta della storia, non la fine.
Il 9 novembre del 2016, tale Donald Trump, candidato alle presidenziali americane, prima snobbato e poi demonizzato da una pletora di media, uomini politici di quasi tutto il mondo e intellettuali di vario tipo e orientamento (quasi dei “sacerdoti” del pensiero unico), ha conquistato la Casa Bianca con una maggioranza netta per voto popolare e per numero di delegati, ottenendo pure la maggioranza nei due rami del Congresso degli Stati Uniti.
Per come è avvenuta la sua elezione, e per gli ultimi venticinque anni passati in Occidente, quest’elezione rappresenta un’altra svolta storica, che si porta dietro gravi e pericolose incognite, ma allo stesso tempo smaschera tutte le illusioni create dalla globalizzazione affrettata, dalla vittoria della finanza sull’economia e sulla politica, dalle costruzioni sovranazionali create da politici improvvisati, in un intreccio perverso di interessi economici e all’insegna del dilettantismo, dello schematismo e per alcuni Paesi, come l’Italia, anche del giustizialismo.
E’ una svolta storica che mette a nudo le incapacità politiche delle nuove classi dirigenti, del cosiddetto establishment, al di qua e al di là dell’Atlantico, di controllare i contraccolpi sociali provocati dai grandi mutamenti economici. E’ una svolta storica che rivela un analfabetismo culturale stupefacente rispetto alle ripetute e a volte impietose pieghe della storia. E anche un’impreparazione spaventosa nella strategia di politica estera, dove sembra che nessuno si occupi più di raggiungere un livello di tollerabile controllo e sicurezza di numerose zone calde del pianeta, al punto che è lo stesso Papa Francesco ad avvertire che stiamo già vivendo una terza guerra mondiale.
Con la caduta del comunismo, che pure era attesa e sperata in tutte le democrazie occidentali, si è elevato a nuovo sistema ideologico un neoliberismo, un ritorno alla scuola neoclassica dell’economia, che ha riprodotto contraddizioni che si erano vissute prima nell’Ottocento e, ciclicamente, con ben due guerre mondiali nel Novecento. Le contraddizioni erano già esplose in modo drammatico prima della grande depressione del 1929.
Dopo il 1989, sia in Europa sia negli Stati Uniti il famoso “laissez faire, laisser passer” e il dogma che “il mercato si sistema da solo” sono ritornati pilastri del pensiero intoccabili. C’erano gli oppositori di tutto questo fin dalla metà degli anni Ottanta, le prime “bad bank” sono state fatte in Germania nei primi anni del Duemila (che strano, proprio nessuno si ricorda la storia della Dresden Bank?), poi è arrivato il colpo finale della grande crisi del 2007.
Già prima della crisi si stavano accentuando le differenze sociali con la prima fase della deindustrializzazione fordista e l’irruzione della new economy. Il cieco dispotismo della finanza, l’avvento di altra e nuova tecnologia, l’irruzione della sharing economy hanno fatto il resto, impoverendo il ceto medio, marginalizzando la classe operaia, delocalizzando imprese, usando in Europa la politica dell’austerity e in Usa un neokeynesismo che ha sistemato più la finanza che l’economia reale. Le diseguaglianze sociali sono diventate intollerabili, così come la concentrazione della ricchezza e l’allargamento delle aree di povertà.
Seguendo questa strada si è arrivati, in otto anni di Angela Merkel e in otto anni di Barack Obama, alla crisi dell’Europa appena costruita e all’America… di Donald Trump, dopo tutte le speranze di maggior integrazione e di nuova democrazia.
Mentre in Europa aumentava la disoccupazione e l’area della povertà, negli Stati Uniti si assisteva a un ripresa lenta, costante, ma basata su bassi salari e sul taglio sociale della middle class, del ceto medio. Dopo i mancati tentativi di ripresa e di uscita dal tunnel della crisi, alla fine è cominciata a dilagare in quasi tutti i paesi del mondo occidentale la rivolta chiamata per comodità “populista”. Ha cominciato l’America con il movimento Occupy Wall Street, ha continuato l’Europa con vari movimenti in paesi diversi, con alcuni alfieri di una svolta a destra pericolosa come quella di Marine Le Pen.
Il cosiddetto populismo è la prima manifestazione del malessere e della rivolta. O una classe dirigente è capace di governarlo, oppure si passa velocemente, anche per fenomeni collaterali di vario tipo (si pensi all’immigrazione) a rigurgiti nazionalistici e a regressioni di schematismo antipolitico e antidemocratico. Infine, se non si cercano e non si trovano i rimedi, il populismo sfocia storicamente in movimenti di destra, spesso radicali e spesso tragici. C’è qualcuno che si ricorda, che ha solo letto anche superficialmente il “diciannovismo” italiano e il conseguente avvento del fascismo ? E’ solo un esempio tra i tanti che la storia ci offre.
Negli Stati Uniti, di fronte a una ripresa troppo sbandierata, rispetto alle aspettative reali, Trump ha rappresentato per prima cosa la rivincita della old economy rispetto alla new e alla sharing economy. Poi è diventato il capo indiscusso del disagio sociale.
Ma quello che è più incredibile, e che si è verificato sia in Europa che negli Usa, è l’atteggiamento della sinistra, sia essa di matrice postcomunista, laburista, socialdemocratica tedesca oppure di tradizione liberal americana. Questa sinistra, pur avendo posti di rilievo in vari governi occidentali, si è dimostrata confusa e incerta, fino ad accettare la strada indicata dalla grande finanza. Il ruolo delle banche è stato ridisegnato con l’assenso di Bill Clinton e Tony Blair, mentre per fare un esempio italiano o tedesco, nessuno di questa sinistra si è opposto allo strapotere delle banche ritornate “universali” e promosse a “conglomerate” che gestiscono e vendono di tutto. Nessuno, a sinistra, si è opposto allo scardinamento dell’economia mista, con il necessario intervento dello Stato quando è necessario. E si è continuato a parlare di corruzione ed evasione fiscale da condannare. Di fatto colpendo non i grandi corruttori o evasori, ma i lavoratori dipendenti, i pensionati, i giovani in cerca di lavoro.
L’impoverimento della classe media, la marginalizzazione della classe operaia, persino la de-sindacalizzazione in molte società europee, ha scatenato alla fine un risentimento sociale che ha provocato effetti strabici. I voti della sinistra americana sono concentrati a Manhattan, nel cuore di New York, e nella ricca California, mentre la destra di Trump prende consensi negli stati tradizionalmente industriali, tra i blue collars, un tempo democratici, come nel Michigan o in Pennsylvania.
E’ una situazione che corrisponde un po’ al voto per il Pd in via Montenapoleone a Milano e al Parioli a Roma, mentre al Lorenteggio, al Ticinese o a Tor Bella Monaca si vota a destra. Un paradosso incredibile, una confusione da mettere i brividi.
Se si guarda con gli occhiali della politica questa situazione di otto anni passati con la Merkel e con Obama, si può solo pensare a un suicidio dell’Occidente. La prima mossa probabile? Un asse a tre fra Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti.