NEW YORK — Mattina di mercoledì 9 novembre: una vasta sala disadorna dentro il ventre dell’albergo Hilton sulla Avenue of Americas a Manhattan (un albergo di lusso ma non veramente lussuoso; cioè, come spesso sono gli alberghi americani, un po’ pacchiano, ma vi si può bere un buon “Bloody Mary”). 



La sala brulica di uomini e donne di diverse età. Di fronte a questa folla che agita i soliti cartelli e che è vestita come a un picnic in spiaggia si erge un palco sul quale cominciano a sfilare il vice-presidente e il presidente degli Stati Uniti, freschi freschi di elezione, accompagnati dalla rispettive e numerose famiglie; con le donne che a un occhio italiano (perfino all’occhio di un uomo) sembrano sempre un po’ infagottate, anche le signore Trump, con i loro abitini bianchi. Dopo poche parole del neo-vice-presidente Mike Pence, Trump tiene un discorsetto alla buona, occupato per la maggior parte dai ringraziamenti ai familiari e ai colleghi.



Così, in questo modo dimesso (è da molte settimane che Trump si è lasciato alle spalle la sua fase infuocata), comincia un nuovo periodo nella storia politica degli Stati Uniti. Ogni vera novità è dirompente, e suscita immediate emozioni; a cui uno si sente comunque partecipe, specialmente se non è un professionista dell’ideologia. Io per esempio mi sono sentito quasi commosso venendo a sapere di mie ex-colleghe che mercoledì sono venute a far lezione con gli occhi rossi. Ma (com’era da aspettarsi) il linguaggio dell’emozioni è stato subito reclamato dall’ideologia: ho appena ricevuto una lettera ufficiale, rivolta a tutto il campus, dal rettore di una grande università dell’Ivy League di cui per carità di patria taccio il nome, in cui questa autorità dichiara di impegnarsi a far sì che, nel suo campus, “le persone addolorate possano avere le opportunità adatte per menzionare e discutere tutta l’angoscia che esse sentono in questo momento”! Ecco l’effetto di regressione infantile su cui il discorso della cosiddetta “correttezza politica” — cioè del totalitarismo ideologico dell’eufemizzazione — basa il suo potere. E  ci vorrà qualche tempo ancora prima che le classi chiacchierone (the chattering classes, come qui sono chiamate ironicamente) si rendano conto che uno dei significati di questa elezione è che è cominciato il tramonto di questo pensiero unico.



Ma la novità non si definisce soltanto in termini negativi, e guardando indietro: essa si pone soprattutto come un tentativo di costruzione che guarda in avanti. 

Si può trovare qualcosa di simile, nel discorsetto diplomatico di Trump, martedì allo Hilton? Beh, si è rintracciata una sola parola (ma è già qualcosa): il termine “movimento”, che Trump ha pronunziato tre volte (“la nostra non è stata una campagna, ma piuttosto un incredibile e vasto movimento” eccetera). 

E’ una parola che segnala una trasversalità rispetto alle divisioni partitiche (e anche l’inizio della resa dei conti che Trump, il non-politico che sta diventando politico, comincerà a fare con il “suo” — si fa per ridere — partito); ed esprime anche il suo desiderio di dar forma al magma sociale che lo ha portato alla vittoria: cioè a tutto quel complesso di cittadini che sono stati finora disprezzati dagli ideologi di professione arroccati nelle università, dal mondo dei media in generale e da Wall Street.

Ma non si può rispondere al disprezzo con il disprezzo: se il “movimento” non sarà in grado di recuperare quegli elementi sociali che finora lo avevano scomunicato, esso finirà ancor prima di cominciare.