È sempre sbagliato fasciarsi la testa prima ancora di essersela rotta. Pertanto, occorrerà vedere all’opera Donald Trump prima di attribuirgli disegni perversi. In fondo deve fare i conti con il Congresso, che è certamente a maggioranza repubblicana, ma non è detto che il Gop segua pedissequamente un presidente che ha contrastato e che da lui è stato “asfaltato” durante le primarie. Allo stato dei fatti, tuttavia, l’elezione di Trump va vista con forte preoccupazione. Per tanti motivi. Per il personaggio in sé, privo di esperienza politica e con idee stravaganti rispetto a quanto, fino a oggi, è stato ritenuto “politicamente corretto” in un quadro consolidato di rapporti internazionali politici ed economici. Ma soprattutto a rendere inquietante la vicenda sono le caratteristiche dell’elettorato che ha decretato il trionfo di Trump oltre ogni aspettativa e in misura tanto netta.
Ha detto bene Carlo De Benedetti: la vittoria del tycoon immobiliarista è quella dell’uomo bianco, di quel wasp, appartenente alla middle class, destabilizzato dalla nuova economia della globalizzazione, che ha perduto le sue sicurezze nel presente e nel futuro e che vede, in un cammino a ritroso nella realtà dei tempi andati, la più facile risposta ai suoi problemi. Persino le donne bianche in misura del 53% hanno snobbato Hillary, diversamente dalle ispaniche e dalle afro-americane.
In questi giorni mi è tornato in mente ciò che lessi tempo fa ne “La nuova geografia del lavoro” (Mondadori) un interessante saggio di Enrico Moretti, un “cervello fuggito dall’Italia” che ora insegna economia all’Università della California a Berkeley. La tesi sostenuta nel libro, corredata dai risultati di una ricerca durata anni, riguarda le profonde trasformazioni, indotte nel mercato del lavoro (non solo) americano, dall’economia post-industriale basata sul sapere e l’innovazione, sia per la tipologia dei beni prodotti, sia per le modalità e le località in cui vengono realizzati. Per alcune regioni e città la globalizzazione e la diffusione di nuove tecnologie comportano aumento della domanda di lavoro, maggiore produttività, più occupazione e redditi più elevati. Per altre, il destino decreta chiusura di fabbriche, disoccupazione e salari più bassi.
Nell’introduzione, in cui l’autore riassume i grandi filoni della ricerca, a prova delle nuove caratteristiche di quella che un tempo veniva chiamata divisione internazionale del lavoro, viene ricordato il processo produttivo dell’iPhone, un prodotto-simbolo che, nato negli Usa, ha ormai conquistato i consumatori di tutto il mondo, in particolare i giovani. L’iPhone è un prodotto ad altissimo livello di tecnologia, costituito da centinaia di componenti elettronici sofisticati, unici e delicati. Eppure – scrive Moretti – i lavoratori americani entrano in gioco solo nella fase iniziale dell’innovazione. Il resto del processo, compresa la fabbricazione dei componenti elettronici più complessi, è stato completamente delocalizzato all’estero.
Seguiamo, allora, su di un immaginario mappamondo il tragitto produttivo di questo oggetto ormai divenuto indispensabile nella vita di tutti i giorni. L’iPhone viene concepito e progettato da ingegneri della Apple a Copertino in California. Questa, come abbiamo già ricordato, è la sola fase “americana” nella fabbricazione del prodotto e consiste nel design, nello sviluppo del software e dell’hardware, nella gestione commerciale e nelle altre operazioni ad alto valore aggiunto. In questo stadio, il costo del lavoro è un problema secondario. Gli elementi-chiave sono la creatività e l’inventiva degli ingegneri e dei designer, per i quali non esistono problemi di retribuzione.
I componenti e i circuiti elettronici sono fabbricati oltreoceano a Singapore o a Taiwan. Arriva poi la fase dell’assemblaggio e della produzione vera e propria. È questa la tappa che richiede più alta intensità di manodopera, in cui, pertanto, la componente costo del lavoro assume rilievo. La lavorazione dell’iPhone sbarca in Cina, in una fabbrica alla periferia di Shenzhen che è forse la più grande al mondo con i suoi 400mila dipendenti. Così, a chi compra il prodotto on line, esso viene spedito da questo kombinat che, più che a una fabbrica, somiglia a una città, con supermercati, cinema, dormitori, campi sportivi. L’iPhone è formato da 634 componenti, ma la maggior parte del valore aggiunto proviene dall’originalità dell’idea, dalla progettazione ingegneristica e dal design.
La Apple ha un utile di 321 dollari per ogni iPhone venduto, pari al 65% del totale e ben più di qualsiasi fornitore di componenti. Eppure – ricorda Enrico Moretti – l’unico lavoratore americano che tocca il prodotto finale è l’addetto dell’Ups incaricato di effettuare le consegne. Assistiamo così, nella globalizzazione, a un nuovo modello di divisione internazionale del lavoro. Non si tratta più, come alcuni decenni or sono, di scaricare sui paesi emergenti i settori maturi o inquinanti o di imporre loro, come durante il colonialismo, economie condannate alla monocoltura, soggette alle oscillazioni dei prezzi e dei mercati. Oggi la divisione avviene anche nella fabbricazione di un singolo prodotto con l’apporto del livello di tecnologia e di capacità di innovazione di cui la filiera dei paesi produttori è, di volta in volta, protagonista.
Questi nuovi processi, però, hanno cambiato, nel contesto della globalizzazione, le condizioni di lavoro e di vita di milioni di lavoratori americani. Trump ha promesso loro di riportare indietro la moviola della storia economica del mondo, di riaprire, sotto casa, quelle fabbriche che sono state delocalizzate e di rimettere in attività persino le miniere. Il suo isolazionismo economico è coerente con quello politico e tende a rassicurare la classe media americana che tutto tornerà come prima.
Trent’anni or sono anche Ronald Reagan vinse le elezioni sull’onda della paura. Allora c’era l’incubo della concorrenza giapponese: su di essa si scrivevano libri e si facevano film. Reagan però seguì la strada aperta da Margaret Thatcher e scelse la competizione globale, riuscendo a vincere la sfida di una ristrutturazione dell’economia. Adesso il “messaggio” dai partner inglesi è arrivato in senso contrario. Trump, dovendo misurarsi con le medesime paure, riproposte dalla globalizzazione, dall’immigrazione e dalla rivoluzione tecnologica, ha scelto di tornare indietro al “piccolo mondo antico” dell’America manifatturiera, esorcizzando e strumentalizzando le preoccupazioni di quanti non sono stati in grado di camminare insieme al trascorrere del tempo.
Ovviamente il “vento americano” soffierà forte anche in Europa e darà alimento a quelle tensioni che avvelenano, ormai da anni, i pozzi del vivere civile del Vecchio Continente: un vento mefitico che gonfierà le vele dei vari Grillo, Le Pen, Salvini d’Europa e che entrerà, prepotente anche nelle urne del 4 dicembre. A questo punto, capita che una persona, come chi scrive, orientata a votare No nel referendum per motivi essenzialmente tecnici (considerando la riforma malfatta e sbagliata) si ferma a porsi una domanda inquietante: di fronte al diffondersi del virus del populismo è venuto il momento di turarsi il naso e votare Sì per salvare il Governo Renzi?
Ho riflettuto a lungo e mi sono convinto del fatto che, dopo il voto dell’8 novembre, sono emersi dei sostanziali ed importanti motivi politici che inducono a votare No. Ritengo, infatti, che l’Italicum, anche se sarà modificato, aprirà una via d’accesso al potere per il M5S, che potrà, quindi, avvalersi in modo autoritario di una Costituzione riformata e spogliata di contrappesi e garanzie. Il mantenimento dell’attuale sistema istituzionale (col bicameralismo paritario) porrebbe l’esigenza di una nuova legge elettorale che garantisca meglio la rappresentanza e renda più complesso il formarsi delle maggioranze. Renzi ha sbagliato a ritagliare un abito su quella che credeva essere la sua misura, mentre che oggi si attaglia perfettamente a Grillo. Se vince il No, è vero, ci sono dei rischi, ma è l’unica uscita di sicurezza anche per il premier/segretario il quale esprime pur sempre, nonostante la sua prosopopea e i suoi errori, una forza utile contrastare la vittoria dei barbari. Quindi è bene che Renzi continui a essere un protagonista della politica italiana anche se perde il referendum.
Ma il prevalere del No lo salverebbe anche da se stesso. Se vincesse il Sì, non verrebbe cambiata in modo adeguato la legge elettorale (per me dobbiamo smaltire la sbornia del maggioritario come abbiamo smaltito quella del federalismo); e diventerebbe operativa una Costituzione che potrebbe essere usata in senso totalitario dal M5S la cui vittoria nelle prossime elezioni sarà favorita proprio dal nuovo “vento” anglo-americano (e dai suoi effetti già nelle elezioni del 2017). Così, nel 2018 l’Italia diventerebbe una repubblica islamica, con tanto di Supremo Guardiano della Rivoluzione. Il cosiddetto combinato disposto Italicum-legge Boschi è una pistola carica che sta per cadere nelle mani di pericolosi killer seriali. Va disarmata e tolta di mezzo.
Sarebbe suicida semplificare la “prise du pouvoir” del nuovo fascismo. Il mondo sta con il fiato sospeso perché, per almeno due anni, Donald Trump concentrerà su di sé tutto il potere istituzionale; nel frattempo, noi ci stiamo preparando a regalare cinque anni di dominio assoluto a Beppe Grillo, con la pretesa di semplificazione delle regole. Nel secolo scorso, l’ascesa al potere di Benito Mussolini fu favorita, certamente, anche da errori gravissimi delle forze liberali, democratiche e socialiste. La legge maggioritaria (Acerbo) e le modifiche in senso autoritario dello Statuto Albertino il fascismo se le dovette procurare da solo; non gli furono offerte su di un piatto d’argento dalla dabbenaggine delle opposizioni. Renzi, invece, ha combinato il guaio di propria iniziativa. Come Brancaleone da Norcia che, nel celebre film, finisce per cadere, insieme al suo sgangherato esercito, nella botola in cui sarebbero dovuti precipitare gli invasori saraceni.