“Il Pd prende applausi convinti da settori industriali forti, da gran parte del mondo dell’informazione, da buonissima parte del mondo della finanza, mentre prendiamo mugugni o critiche da giovani, lavoratori, insegnanti. Che film ci stiamo raccontando?”. Pier Luigi Bersani, leader della minoranza del partito, legge il momento attuale e manda critiche durissime — su tutto, dalle riforme alla legge di bilancio — all’indirizzo di Matteo Renzi. Oggi la sinistra rischia di schiantarsi insieme alla globalizzazione “che sta ripiegando”, lasciando via libera “all’aggressività di una nuova destra, non liberista come quella di Thatcher o Reagan, ma di protezione”, alla Donald Trump ma non solo. E le riforme di Renzi espongono pericolosamente il paese a questo processo.  



Bersani, secondo lei quanto sta accadendo negli Stati Uniti ha risvolti anche per l’Italia?

De te fabula narratur, diceva Orazio. Purtroppo non devo cambiare nemmeno una virgola di quello che sto dicendo da un anno a questa parte. C’è un tema-mondo che evidentemente coinvolge anche l’Italia. Il fatto è che, dopo vent’anni, la globalizzazione sta ripiegando. E assieme al positivo ci lascia disuguaglianze micidiali e un’impressionante crisi del lavoro.



Con quali conseguenze?

Questo sta creando sentimenti protezionistici e scatenando una nuova aggressività. E cresce una nuova destra, non liberista come quella di Thatcher o Reagan, ma di protezione. E’ una destra che dice: difendo la mia parte contro le merci e le persone che vengono da fuori e rappresento gli esclusi dall’establishment che ci ha portato a questo disastro. In realtà, tutto questo lo vediamo prima in Europa…

A chi pensa?

Le Pen, Orbán, il caso austriaco, il referendum in Canton Ticino sono tutti fatti che parlano della stessa cosa. Ora è arrivata anche l’America, ma il fenomeno è lo stesso. In questo contesto la sinistra e il centrosinistra non possono più limitarsi a sventolare la ricetta dei primi anni Novanta, quando la globalizzazione cominciò. Programmi a base di parole come opportunità, flessibilità, eccellenze, merito, eccetera. Per carità, tutte cose giuste in quella fase.



Ma?

Ma qui ci vuole una sinistra che protegga i deboli, il welfare universalistico e il lavoro e che non si possa confondere con i poteri che comandano. In questa situazione in ebollizione che cosa siamo diventati? Che cosa abbiamo fatto? Abbiamo alzato la posta, impugnato temi politici come le leggi elettorali e le modifiche costituzionali immaginando forse uno sfondamento nel consenso. Ma è stato un errore.

Ogni riferimento al governo è puramente casuale, no?

Certo, anche per sua iniziativa si è aperto il vaso di Pandora di problemi che si trascinano da anni. 

Se non ci fosse di mezzo la riforma costituzionale, che valutazione darebbe dell’azione di governo?

Ci vuole una forte correzione, sia sul piano della cosiddetta narrazione sia su quello degli interventi. Teresa May, la leader conservatrice inglese, sta propugnando la stabilità del posto di lavoro. Io penso che tocchi a noi ripartire dai diritti del lavoro e dobbiamo farlo subito. C’è troppa precarizzazione. In secondo luogo, dobbiamo essere un governo che si preoccupa di ridurre la forbice sociale. 

In che modo?

Per farlo ci sono due strade: il fisco progressivo e l’incremento della fedeltà fiscale, e il welfare, a cominciare dalla sanità. Serve più welfare fatto come si deve e meno bonus. Se rinunciamo all’idea che davanti ad un problema serio di salute non c’è né il povero né il ricco, rinunciamo a una proposta di protezione che possiamo difendere solo noi, non altri.

 

Siamo in stagnazione. Come si fa a uscirne?

Questa situazione di stagnazione e di rischio di deflazione è dovuta in gran parte all’irrompere delle tecnologie, che ricattano il lavoro a vantaggio del consumatore. Ma il lavoratore è un consumatore e se non consuma si abbassano i prezzi ma non aumentano i consumi. Come uscirne? Servono investimenti per dare lavoro, ma è difficile contare su investimenti privati in una fase di stagnazione. Per questo serve un rilancio dell’iniziativa pubblica nel sollecitare il risparmio delle famiglie e delle imprese a fini di investimento.

 

E in Europa come la mettiamo?

In Europa dobbiamo chiedere sì margini di indebitamento, ma solo per investimenti. Per il resto dobbiamo cavarcela da soli, facendo pagare qualcosa in più a chi può farlo.

 

Perché Renzi non ci ha provato?

Bisognerebbe chiederlo a lui. Abbiamo speso 20-25 miliardi in sgravi di vario genere, abbiamo abolito l’Imu per tutti, abbiamo speso 8mila euro per i contratti Jobs Act e altro ancora. Se dei miliardi spesi in queste ultime misure ne avessimo usati la metà destinandoli per esempio ai sistemi locali per un piano di manutenzione del territorio — e non intendo solo opere di cura del suolo ma anche strade, scuole — avremmo fatto una cosa più utile. 

 

Bersani, perché secondo lei il capo del governo ha puntato tutto sulla riforma costituzionale?

In questa vicenda c’è stato qualcosa di imperdonabile, che nasce dalla suggestione innescata da quel 40 per cento ottenuto alle europee e dall’idea di impugnare il cambiamento mediante l’uso di temi centrali come la riforma delle istituzioni e della legge elettorale. E stata una scelta sbagliata e pericolosa.

 

Perché la definisce pericolosa?

In nome di una democrazia più “governabile” e più efficiente si è creduto di instaurare un rapporto più diretto tra popolo e governo, col risultato di esporre il nostro sistema al rischio di ciò che vediamo manifestarsi adesso in mezzo mondo. Di fatto si è preparato il terreno a un’altra eventualità, quella del facile ottenimento del potere da parte di chi ha i mezzi e il facile consenso per ottenerlo. 

 

Per questo lei sul cambiamento della legge elettorale è irremovibile?

Sì. Si è scelto di cambiare la legge elettorale nel modo sbagliato. La strada era un’altra, si doveva puntare di più sulla rappresentanza, cercando un rapporto rappresentanza-governabilità più profondo e più connesso al problema sociale che si è aperto. Avevamo bisogno di un sistema di governo più rappresentativo e quindi più democratico e flessibile, ci ritroviamo con un sistema più rigido. Ma così rischiamo di sigillare una pentola a pressione.

 

Per Renzi “basta un Sì” per cambiare tutto, per lasciarsi indietro il Vecchio e traghettare l’Italia nel Nuovo. Dopo la vittoria di Trump, il presidente del Consiglio ha accentuato ancor di più questa radicalizzazione del Sì.

E’ ora di sdrammatizzare, su questo appuntamento referendario s è voluto e imposto un clima da giudizio di dio che non condivido. Quando si parla di Costituzione i banchi del governo dovrebbero essere vuoti, diceva Calamandrei, e anch’io la penso così. Non ci si doveva imbarcare in una riforma costituzionale governativa, ma se passa il No non sarà la fine del mondo. 

 

Non sarà la fine del mondo, ma cosa dobbiamo aspettarci?

Se vince il No la vita continua, e anche il governo deve continuare. Però prima del voto il segretario del Pd dovrebbe dire al partito e a chi lo segue che il Pd dà la sua indicazione, ma che davanti a temi costituzionali c’è assoluta libertà di coscienza e di voto. Renzi faccia la campagna elettorale che vuole, ma conceda il diritto di cittadinanza a chi la pensa altrimenti.

 

Bersani, c’è o non c’è un problema democratico?

C’è, e sta nel collegamento della riforma costituzionale con la legge elettorale. In presenza di una sola camera è evidente che avere un meccanismo elettorale dove chi ha il 20-25 per cento prende tutto, compresi gli organi di garanzia, fa un parlamento fatto per tre quarti di nominati, fa il governo del capo in un sistema dove non c’è né una legge sui partiti né sulle primarie, è una cosa che ammala la democrazia. 

 

Eppure Renzi e la Boschi dicono che anche lei ha votato le riforme, e ora si oppone per ragioni di bottega: fare fuori il presidente del Consiglio.

Per favore. Sanno benissimo che io non ho mai votato l’Italicum né la fiducia sull’Italicum. Sanno anche che ho votato la riforma costituzionale con il patto che si cambiasse l’Italicum e si procedesse all’elezione diretta dei senatori. Ma non si è visto niente di tutto ciò. 

 

Cuperlo prima della Leopolda ha firmato un accordo in vista di cambiare la legge elettorale. Non basta?

E un foglio che contiene una proposta fumosa. Purtroppo è passato un anno inutilmente. La realtà è che su questo punto Renzi si vuole tenere le mani libere. Io non sto affatto sereno. 

 

E’ un fatto che il vostro No alla riforma potrebbe portare a una rottura. Lei continua a dire che dal Pd non se ne va perché è casa sua. Come accade che si diventa estranei in casa propria?

Estranei non direi. Credo che sia molto un problema di vertice, certamente anche nella base ci sono diverse opinioni, compreso il disagio, mi creda. Non pretendo certo di arruolarla tutta con me, non l’ho mai pensato, però suggerisco di avere uno sguardo ampio e di tenere presente tutte le situazioni italiane, soprattutto dalle amministrative a questa parte. C’è una parte rilevante del nostro mondo che non è soddisfatta, non va a votare o addirittura vota qualcun altro. Io lavoro perché questa parte importante del Pd, che non è certamente la peggiore, continui a impegnarsi nel partito. Non contemplo nessuna ipotesi di scissione o di rottura.

 

Ma è davvero possibile al punto in cui siete arrivati, con Renzi che vuol essere il dominus assoluto del partito?

Sono anche gli eventi a riequilibrare gli errori. Io penso e spero che il giorno dopo il referendum si possa aprire una vera discussione di fondo nel Pd sul mestiere che dobbiamo fare, su cos’è la sinistra oggi.

 

A proposito del giorno dopo. Una delle singolarità italiane di questo referendum è che il No è variegato e trasversale: va da Bersani a Brunetta, a Grillo e a M5s, passando per comitati di cittadini, giuristi, associazioni. Fuori del Pd lei sarebbe disposto a cominciare un confronto con questi interlocutori? Renzi sostiene che il No non ha niente da proporre…

La cosa è molto semplice. Il Sì ha la pretesa di configurare una specie di alleanza di governo, ma questo è del tutto improprio davanti a temi così importanti. Ai temi costituzionali ognuno arriva con le sue motivazioni, e per me non è che il giorno dopo dal No viene fuori alcunché. Dovrebbe invece cominciare una riflessione seria nel Pd, ripeto, per correggere la linea di governo e prefigurare un centrosinistra — e non solo un Pd rinnovato — che possa sfidare M5s e sia alternativo alla destra incombente e nascente. 

 

Incombente? E’ frastagliata, disunita, anche se Salvini dice di candidarsi a premier.

Apparentemente è frammentata, ma se andiamo a vedere nel profondo del paese cosa succede tra crisi economica, territori spesso lasciati a se stessi, immigrazione, fisco, burocrazia, scopriamo uno scenario diverso, dove qualcosa di profondo sta evolvendo sotto i nostri occhi. C’è un pezzo di Italia che non arriva alla comunicazione, se ne tiene fuori, ma sta rimuginando cattivi pensieri. Solo che noi politici e il mondo dell’informazione non riusciamo a vederlo perché stiamo troppo in superficie.

 

Insomma se non stiamo attenti ci ritroviamo con un Trump italiano.

Assolutamente sì, è un anno che lo dico. Noi della sinistra, se ci chiamiamo tali, dobbiamo mettere i piedi nelle periferie territoriali e sociali. Se lo facessimo vedremmo e diremmo cose diverse. Possibile che ci sia solo il papa a dire e vedere certe cose?

 

E dire che Renzi è andato al potere cavalcando l’onda contro l’establishment, come rottamatore dei poteri forti o consolidati.

Senta, da osservatore che fortunatamente coglie ancora qualcosa della realtà, vedo questo: che il Pd prende applausi convinti da settori industriali forti, da gran parte del mondo dell’informazione, da buonissima parte del mondo della finanza, mentre prendiamo mugugni o critiche da giovani, lavoratori, insegnanti. Che film ci stiamo raccontando? che noi siamo contro l’establishment? Se non veniamo percepiti così, c’è qualcosa che non torna.

 

(Federico Ferraù)

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