Di fronte alla crisi economica, sociale e politica di questi anni, sembra di scoprire l’esistenza del “nulla di nuovo sotto il sole”. La storia pare ripetersi con una monotonia indisponente e fastidiosa. Scriveva Joseph Schumpeter, nel 1942 e poi nell’edizione-aggiornamento del 1945 del suo Capitalismo, socialismo e democrazia: “Appena ci allontaniamo dalle preoccupazioni primarie della famiglia e della professione, ed entriamo nel campo degli affari nazionali e internazionali che mancano di un rapporto diretto con quelle preoccupazioni private, vi è un forte declino nel dominio dei fatti. Ciò che più mi colpisce è che vi si perde in modo così preoccupante il senso della realtà. La perdita di senso della realtà provoca a sua volta la caduta del senso di responsabilità e quindi l’assenza di una volontà precisa. Il cittadino sogna a occhi aperti e sceglie in base a simpatie e antipatie”. Nelle sue considerazioni Schumpeter parlava quasi di una regressione infantile.



In un’altra parte della sua opera, Schumpeter analizzava anche il “paradosso” che funziona, quello della democrazia rappresentativa. Si può dire che siamo sempre di fronte a un “paradosso” soggetto a rischio, sempre legato alla capacità di classi dirigenti responsabili e dotate di grande senso di realtà, che di fatto compensano il generale, quasi inevitabile, “declino” nel dominio dei fatti dei cittadini.



C’è un rischio ulteriore in tutto questo, quello dei passaggi storici epocali, dove rivoluzioni economiche e sociali ridisegnano lentamente nel sottoterra una società e poi, come la “vecchia talpa” di marxiana memoria, appaiono in superficie a giochi fatti. Qualche cosa del genere è avvenuto in questi ultimi 30 anni, soprattutto dopo il crollo del comunismo, dopo la famosa “caduta del Muro di Berlino”.

In Occidente, a una tollerabile regressione infantile, tutelata e curata da partiti politici ben strutturati, si è improvvisamente aggiunta una regressione infantile di una intera classe dirigente che, liberatasi dall’incubo della guerra fredda, si è messa a sognare il Bengodi finanziario e a straparlare. Si pensi che solamente in Italia, due tra i più noti economisti e nello stesso tempo tra i più noti editorialisti del Corriere della Sera, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, davano alle stampe nel 2006 un libretto dal titolo Il liberismo è di sinistra.



C’era un grande entusiasmo liberista anche nel secondo governo di Romano Prodi, tra il 2006 e il 2008, e nelle cosiddette “lenzuolate” liberalizzanti del ministro Pier Luigi Bersani. Il tutto si rivelò un delirio, perché a livello mondiale, nel 2007, scoppiò la più grande crisi economica e finanziaria del dopoguerra (figlia diretta del liberismo), che sbarcò in Europa nel 2008 e in Italia venne oltretutto ratificata da un’inchiesta contro il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, dell’indomabile procura di Santa Maria Capua Vetere, che con la crisi economica non c’entrava nulla, ma suggellava la confusione della nuova classe dirigente italiana, tra liberismo, entusiasmo europeistico a casaccio e giustizialismo. 

Il dato di fondo però, esemplificato dal pensiero del duo Giavazzi-Alesina, era il tracollo del senso di realtà e di responsabilità che stava scombussolando il mondo intero e soprattutto confondeva volutamente il confronto storico tra destra e sinistra. Proprio quella scelta allargava l’area della povertà sia in Europa che in America, accentuava insopportabili differenze sociali, non governava i profondi cambiamenti economici che stavano avvenendo. La classe dirigente occidentale era come un viaggiatore che aveva preso un treno per andare a Stoccolma e si era ritrovato, dopo un viaggio problematico, a Caltanisetta.

La lunghezza di questa grande crisi ha il timbro della decadenza di una classe dirigente nel suo complesso, che non è solo quella politica, ma soprattutto quella che fiancheggia e si sovrappone al potere rappresentativo democratico, cioè il nuovo “dispotismo” finanziario che determina una nuova divisione del lavoro e della ricchezza, riducendo al massimo l’autonomia reale della politica; che allarga l’area della povertà in modo allarmante e accentua la diseguaglianza sociale in modo insopportabile. Al di qua e al di là dell’Atlantico, in modo approssimativo, quasi tutti i governi occidentali (soprattutto quelli italiani) hanno imbrogliato deliberatamente sulle ricette per uscire da questa crisi, applicando sostanzialmente l’austerity in Europa e un neokeynesismo blando negli Stati Uniti.

Se si dimentica questo sfondo non si capisce il parapiglia politico che si sta scatenando, da mesi, dopo anni di insofferenza, in Europa e in America. La Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa è stata solo la prima grande avvisaglia, ma l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è un fatto dirompente, un allarme inquietante, che avvenendo poi nella più grande potenza industriale e militare del mondo ha un effetto moltiplicatore di instabilità che coinvolge l’Europa. La battaglia sul referendum in Italia era già dura, ma è diventata ancora più rovente dopo l’elezione di Trump.

Qui c’è Matteo Salvini, il leader leghista che “dà i numeri”, andando a urlare nella città di Matteo Renzi, a Firenze, e ponendosi come candidato di un nuovo centrodestra, mettendo in questo modo in imbarazzo lo stesso vecchio centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Segnali di turbolenza potrebbero venire ancora dall’Austria e poi dai paesi ex comunisti. Ma lo sguardo va soprattutto alla Francia, dove lo “spirito repubblicano” dovrebbe affidarsi al vecchio conservatore Alain Juppé per contrastare Marine Le Pen nelle elezioni del maggio dell’anno prossimo. E qui siamo quasi alla disperazione per lo “spirito repubblicano”.

Ma sostanzialmente questa elezione di Trump ha messo in moto, in modo più forte, tutto il “serbatoio”, cosiddetto sbrigativamente populista, che si è continuamente arricchito in questi anni. E’ veramente difficile comprendere quello che può capitare in futuro sullo scacchiere internazionale, nei rapporti tra Usa ed Europa (soprattutto con il croupier lussemburghese Jean-Claude Juncker in stato di evidente alterazione), nel futuro della stessa Comunità europea. 

Trump ha sdoganato una protesta ambigua che è difficile contenere. Lungi da noi pensare che Donald Trump sia la soluzione dei problemi. Probabilmente li aggraverà. Ma bisognerebbe chiedersi, come facevano i grandi riformisti di sinistra nei tristi anni Trenta europei: com’è stato possibile perdere di fronte a un simile personaggio? E’ importante chiederselo e studiarlo bene, magari per non ripetere in futuro gli stessi errori. Che a livello di classi dirigenti sono poi quello che notava Schumpeter a livello più generale: perdita del senso di realtà e conseguente perdita del senso di responsabilità.