Suona come un sinistro avvertimento per gli avversari, soprattutto quelli interni, quel “referendum occasione per fare chiarezza” scandito da Matteo Renzi dal palco di Napoli. Un avviso che — comunque vada — dal 5 dicembre nulla sarà più come prima.
Chi ha avuto occasione di parlare a quattr’occhi con il premier nelle ultime settimane lo ha trovato convinto a battersi sino in fondo, e in prima persona, nella campagna elettorale. Ed è così che nelle ultime tre settimane prima del voto si sta pianificando un’escalation di presenze di Renzi sul territorio, un tourbillon di iniziative per il Sì. I sondaggi che continuano ad indicare una tendenza piuttosto marcata a favore del No lo preoccupano sino a un certo punto. Tantissimi ancora gli indecisi, che potrebbero sovvertire i pronostici assai più facilmente di quanto non si avvenuto negli Stati Uniti, dove tutti prevedevano la vittoria della Clinton.
E’ proprio sugli indecisi che si concentrerà lo sforzo maggiore di Renzi e dei suoi. E gran parte di quel popolo si colloca fra le fila degli elettori moderati. Non a caso sabato scorso, proprio mentre una parte del popolo del centrodestra era in piazza a Firenze, il premier via social si è rivolto direttamente agli elettori dei partiti di opposizione, sostenendo che un voto contro la riforma equivarrebbe a negare la storia di una parte politica che la riforma dello Stato ha sempre affermato di volerla. E — visto il “tutti contro tutti” in atto nel centrodestra — questo appello potrebbe non rimanere inascoltato. E anche il muso duro contro l’Europa serve a lisciare il pelo per il verso giusto a un elettorato di centrodestra (ma anche grillino), fra le cui fila gli euroscettici abbondano. In buona sostanza fare la voce grossa contro Orbán e soci, minacciando il veto ai fondi per i paesi che si rifiutano di accogliere i migranti, serve anche a vincere il referendum.
Decisiva nel determinare l’esito della disfida del 4 dicembre sarà l’affluenza alle urne: più sarà alta la partecipazione, più sarà probabile la vittoria del Sì. Un dato suggerito da molti analisti politici, della cui bontà a Palazzo Chigi sono assolutamente sicuri.
La vera sfida è però sul dopo. Lo scenario più semplice è quello della vittoria del Sì: se così sarà, Renzi risulterà arbitro quasi incontrastato della situazione. Gli assi in mano li avrà tutti lui. Potrà decidere se e come mantenere la promessa fatta di rivedere l’Italicum (anche perché la via potrebbe indicarla la Corte costituzionale), ma soprattutto potrà liberarsi senza alcun rimpianto dei “frenatori” di casa sua. Dentro il Pd l’aria si farebbe tanto irrespirabile che non sarebbero neppure necessarie espulsioni: per la sinistra bersanian/dalemiana non vi sarebbero semplicemente più le condizioni per una convivenza. E a quel punto il premier avrebbe mano libera nel decidere il timing del ritorno del paese alle urne, o la tarda primavera del 2017 (maggio/giugno), oppure la scadenza naturale della legislatura, all’inizio del 2018.
La vera incognita è la gestione della vittoria del No. Da qualche giorno i corridoi di Montecitorio hanno preso a sussurrare di un silenzioso braccio di ferro in corso fra Palazzo Chigi e Quirinale. Renzi avrebbe fatto sapere a Mattarella che non ci starebbe a farsi rosolare. Preferirebbe farsi da parte, magari indicando Padoan per la guida del governo, così da prendere la rincorsa verso le successive elezioni. E anche per rintuzzare il probabile assalto della minoranza Pd, che non esiterebbe un solo minuto per chiedere la sua testa.
Si tratta di intenzioni che — se confermate — complicherebbero non poco la tela che sin dal giugno scorso stanno pazientemente tessendo Mattarella e i suoi collaboratori. Un disegno che — per ridurre al minimo le inevitabili fibrillazioni — prevederebbe un rinvio del governo alle Camere o, in alternativa, un Renzi bis, magari con base parlamentare allargata, con il compito di riscrivere non solo l’Italicum, ma soprattutto le regole elettorali del Senato, a quel punto sopravvissuto all’ordalia referendaria. Altri scenari, altri premier, sono ritenuti dalle parti del Colle assai più cedevoli e, di conseguenza, più rischiosi per il paese. Preferibile evitare.
Le premesse di una fase di accentuata instabilità ci sono tutte, visto anche lo stato comatoso in cui versa il centrodestra. Come si dipanerà è troppo difficile da prevedere in questa fase. Bisognerà vedere se davvero Renzi terrà duro su queste posizioni e come deciderà di muoversi il Quirinale di fronte alla sua prima autentica scelta politica. Sarà un lungo e sottile braccio di ferro, per la maggior parte lontano dai riflettori.
In fondo, comunque vada il 4 dicembre, l’unica certezza è che il premier nonché segretario del Pd non perderà affatto la sua centralità nella scena politica italiana. Il redde rationem è ormai alle porte.