La campagna referendaria messa in atto dal Governo oramai da sei lunghi mesi ha forse generato un effetto indiretto e paradossale. Si tratta di un effetto non previsto e appena colto dagli osservatori politici nazionali. Eppure, ove confermato e portato a buon fine, esso potrebbe costituire la vera novità del momento. Potrebbe anzi apparire come il primo fattore di discontinuità del trascorso ventennio; potrebbe rappresentare la sola condizione per chiudere definitivamente quella transizione infinita, che ha segnato il fallimento della Seconda Repubblica. 



Ciò in quanto l’avvio di una nuova stagione politica finalmente pacificata e costruttiva non è tanto connessa all’adozione di nuove regole costituzionali, dubbiamente evocative degli slogan del momento (cambiamento, semplificazione, rapidità, ecc.); piuttosto, esso deriva soprattutto dalla maturazione di un nuovo accordo politico, finalmente inclusivo delle differenti forze popolari e rispettoso delle reciproche diversità. Ed è questo ciò che principalmente è mancato nel periodo che abbiamo attraversato.



Per meglio comprendere, occorre richiamare le conseguenze derivate in Italia dalla fine della guerra fredda. La crisi di quell’assetto geopolitico e il crollo del relativo regime partitocratico si sono risolti nell’avvento di un sistema bipolare conflittuale, che si è sovrapposto alle fratture di allora, oramai storicamente superate, incrementandone la ragion d’essere; e questo ha impedito la consacrazione di un nuovo accordo capace di depotenziare le tensioni in atto. Il ricorso alla categoria del “nemico pubblico” è valso a catalizzare la rispettiva parte politica contro un rivale da sconfiggere in tutti i modi. Ciascuna parte ha rivendicato sull’altra un’insanabile diversità etica, antropologica, o di altro genere. La rispettiva intransigenza è presto degenerata in un moralismo divisivo sempre più categorico e autoreferenziale, che ha indotto a qualificare come cedimento etico lo stesso confronto (o dialogo) fra parti addestrate alla guerra totale. 



E così, l’assenza di una prospettiva istituzionale condivisa ha squilibrato l’impianto dei poteri e il sistema dei diritti. Il tutto si è risolto nella “fuga” della politica dalle proprie responsabilità decisionali: le decisioni più complesse sono state materialmente rimesse a poteri “neutri” ed estranei al circuito democratico-rappresentativo (la Bce, il “governo dei giudici”, le autorità amministrative indipendenti, le amministrazioni pubbliche, ecc.), mentre il tema dei diritti è stato monopolizzato in via di fatto dalle Corti nazionali e sopranazionali. 

E’ in tale contesto che occorre inquadrare il disegno riformatore al vaglio referendario. Il modello di governo Renzi-Boschi ha origini lontane (si pensi alla celebre lettera inviata nell’agosto 2011 dalla Bce all’Italia a firma di Draghi e Trichet). Esso è volto a costituzionalizzare un meccanismo governativo proprio dello stato di crisi; è incentrato su un sistema di risposta all’emergenza economica, che libera l’esecutivo da tutti quei filtri di riflessione politica e ponderazione degli interessi (il ruolo compromissiorio del Parlamento), oltreché di valutazione territoriale (l’apporto corresponsabile delle Regioni e degli enti locali), che sono propri della democrazia parlamentare e territoriale. 

E tuttavia, una trasformazione costituzionale di tal fatta, oltre a essere assolutamente discutibile, avrebbe presupposto una piena condivisione delle forze parlamentari. Essa, al contrario, non solamente è stata pilotata da una minoranza politica elettoralmente maggioritaria grazie al Porcellum; più ancora, presenta carenze tecniche ed errori madornali, che minano la relativa funzionalità e l’equilibrio dei poteri. A titolo meramente esemplificativo, basti pensare al recente documento degli “esperti” del Pd (pubblicato sul Corriere della Sera del 2 novembre scorso), dove si dichiara che i nuovi senatori “dopolavoristi”, al fine di conciliare i tempi di lavoro sul territorio con quelli di Roma, si recheranno a Palazzo Madama solamente due volte al mese; sicché, per il resto, voteranno via mail da casa (mai vi fu regalo più gradito alle lobby!).

Ed è rispetto a una simile prospettiva, verticistica e riduttiva delle capacità democratiche della Costituzione, che ha iniziato a prendere forma l’effetto certamente paradossale e indiretto provocato dalla riforma Renzi-Boschi. I cittadini hanno cominciato a non fidarsi più della propaganda governativa impartita a reti unificate. Hanno cominciato a uscire di casa, a incontrarsi, a dialogare, a confrontarsi. Le precedenti barriere divisive sono state progressivamente vinte (un tempo si diceva: “quasi senza accorgersene”) da una nuova esigenza di comprensione e di partecipazione. Negli incontri pubblici, variamente convocati da movimenti civici, comitati spontanei, ordini professionali, sindacati e organizzazioni di partito, i dibattiti sono proseguiti ben oltre l’orario stabilito. Le domande hanno riguardato i fondamenti del vivere civile, le modalità dello stare insieme, le ragioni di speranza verso il futuro e, dunque, il destino delle istituzioni. Senza volerlo ha preso inizio quanto aveva preconizzato il presidente Mattarella allo scorso Meeting di Rimini: “Il nostro Paese ha bisogno di rinnovato entusiasmo, di fraternità, di curiosità per l’altro, di voglia per il futuro, del coraggio di misurarsi con le nuove sfide che abbiamo di fronte”. Una nuova trasversalità, questa volta consapevole e non più mercenaria, si è posta e imposta autonomamente quale soggetto politico informale e decisivo.

Con tutte le necessarie differenziazioni storiche, il fenomeno tratteggiato presenta sorprendenti analogie con le dinamiche precostituzionali del periodo del Cln, le quali aprirono la via alla successiva fase costituente. Anche allora, come ora, da una resistenza (ovviamente ben più drammatica) a un disegno politico ritenuto avverso alle esigenze nazionali, sorse e si realizzò una riaggregazione politica prima impensabile; si compì una convergenza fra parti profondamente diverse (comunisti, cattolici e azionisti), il cui confronto fu poi coronato dal successivo “compromesso” costituzionale. Del resto, se le costituzioni nascono da un compromesso, bisogna anche dire che il compromesso si stipula tra forze avverse e non già contigue. 

Ove confermata, insomma, l’iniziativa referendaria del Governo sembra avere favorito in modo paradossale e non ricercato il compiersi di quanto invece osteggiato nel trascorso ventennio. Quella reciproca legittimazione politica fra i principali partiti, che prima era mancata per un insieme di ragioni storiche, geopolitiche e culturali, sembra ora trovare riconoscimento in via di fatto e senza alcuna teorizzazione da parte delle rispettive basi elettorali. Per un’imprevista eterogenesi dei fini, quanto prima era irrealizzabile ora è divenuto praticabile. Spetta ai vertici di quei partiti, pertanto, la responsabilità di portare a compimento quanto già avviato nella realtà delle cose.

Ed è questa la strada per chiudere i conti con il passato e per aprire la via a un cambiamento non solamente declamato. Il problema non è tanto la difesa cieca e intransigente della Costituzione del ’48, bensì la necessaria salvaguardia del metodo di scrittura costituzionale allora sperimentato; un metodo capace di sostituire il vecchio compromesso di Yalta con uno nuovo compromesso parimenti pacificante e garantista.

Da tale punto di vista, la maggiore responsabilità del Governo risiede proprio nell’aver violato consapevolmente una tale metodologia; nell’avere trasformato l’iniziativa referendaria nel derby fra due fazioni, una delle quali, per giunta, forte delle protezioni lobbistiche, economiche e mediatiche derivanti dalla copertura governativa. Risuonano ancora le parole di Matteo Renzi alla Leopolda del 6 novembre, con le quali è stato brandito ancora una volta il bastone delle riforme contro le minoranze, senza considerare le relative conseguenze: “Nelle prossime 4 settimane il derby è tra il canto di speranza per i nostri figli o la cultura della rassegnazione e piagnistei che ha visto l’Italia bloccata per la responsabilità di una classe dirigente che ora vuole tornare ma ha fatto schizzare il debito pubblico. Il derby è tutto lì, tra chi non vuole cambiare nulla e un 2017 come anno della ripresa”. 

E tuttavia, la trasformazione del referendum costituzionale in un giudizio di dio, in uno scontro all’ultimo sangue fra due parti della popolazione, si presta solamente a dare gloria ai vincitori, condannando i vinti alla damnatio memoriae del prossimo futuro. 

Ecco perché le forze politiche contrarie alla riforma Renzi-Boschi hanno il dovere di portare a termine quanto la realtà già manifesta come possibile; hanno la responsabilità di affermare il No all’attuale progetto di revisione in vista di un Sì a un cambiamento ben più comprensivo, inclusivo, rispettoso ed equilibrato. 

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