La doppia morale non paga, perché la gente prima o poi se ne accorge. Cosa sarebbe accaduto sui maggiori quotidiani italiani se Berlusconi si fosse presentato in aula alla Cattolica di Milano insieme al rettore per una “lezione” di diritto alla vigilia di un referendum costituzionale?

Marcello Foa, giornalista, blogger, esperto di comunicazione e ad del Corriere del Ticino, ha previsto con ampio anticipo la cantonata delle “corazzate” dell’informazione Usa, New York Times in testa, e la vittoria di Donald Trump. Con lui abbiamo parlato della comunicazione renziana in vista dal referendum del 4 dicembre. “Renzi? Sa comunicare molto bene, ma è prigioniero della bolla”.



Foa, sul suo blog lei ha scritto che i media non hanno capito la realtà americana e nemmeno la campagna elettorale. Vede qualcosa di  simile anche in Italia?

Sì. La Brexit e quello che è accaduto negli States dicono chiaramente che il vecchio modo di fare propaganda non funziona più come un tempo. Non solo. Se guardiamo la strategia di Hillary Clinton, che puntava soprattutto al controllo dei media mainstream, vediamo che corrisponde alla campagna di Renzi sul referendum.



Con quali risultati?

Renzi controlla la Rai, Mediaset lo aiuta, i principali giornali sono favorevoli o comunque non ostili al governo, eppure questo non basta più a convincere la gente.

Come lo spiega?

Il modo di informarsi della popolazione è molto più diversificato rispetto al passato. E soprattutto si è generata una crescente sfiducia verso la grande informazione, percepita come poco autorevole e ancor meno indipendente. 

In Italia però non si tratta di eleggere il capo dello Stato, ma di prendere posizione su un tema complicatissimo.

Vero, ma il fatto che Renzi non riesca a far passare il suo messaggio significa che c’è un problema di fiducia personale nei suoi confronti. 



Su cosa basa questa sua valutazione?

Tanti indizi lo fanno capire. La campagna martellante, i sondaggi, il nervosismo in molti esponenti dell’inner circle renziano. Quando Oscar Farinetti, che per queste cose ha la vista lunga, dice “dobbiamo tornare ad essere simpatici” (Corriere della Sera, 6 novembre, ndr), tocca un nervo scoperto. Il problema è che Renzi è vittima della sua stessa propaganda. 

In che modo?

Se chi sta al governo promette le riforme prima cento giorni, dice che “l’Italia riparte” e fa ossessive accuse a gufi e rosiconi, e poi la gente nella vita di tutti i giorni non vede un cambiamento reale, l’impressione che si genera nell’opinione pubblica è che chi sta in quel palazzo non le racconti giuste. E quello che Renzi paga, oggi, è proprio un fortissimo deficit di credibilità. 

Insomma, la gente non gli crede più.

E questo deficit di credibilità, combinato al fattore mediatico citato, spiega perché la propaganda messa in campo non riesce a suscitare quel consenso che invece sarebbe lecito aspettarsi. Con tutta l’energia che Renzi vi ha messo finora, il Sì dovrebbe essere al 70 per cento e il No al 30. E invece non si schioda da percentuali deludenti e per ora minoritarie. 

 

Dopo la vittoria di Trump, Renzi ha rapidamente rielaborato il messaggio: l’America ha svoltato, “basta un Sì” e potete farlo anche voi. Lo schema è sempre lo stesso: piccole astuzie (“con il No torna l’Italietta”, “il Sì fa scendere lo spread”), il nuovo contro il vecchio, lui contro tutti. Una cosa del genere in Italia non si era mai vista. Da dove arriva?

Dalle tecniche di spin doctoring che Renzi applica con i suggerimenti di Filippo Sensi e degli spin doctor americani. Ma andare a cena da Obama per sostenere Hillary Clinton e saltare sul carro di Trump è ridicolo e rischia di essere un boomerang terribile. 

 

Di nuovo, Foa: come fa a dirlo?

Ma perché tutte queste cose un tempo passavano, oggi non passano più. Quando c’era il monopolio dell’informazione la gente “beveva” tutto quello che diceva la tv, oggi la tv è vista in modo costante soprattutto dagli over 60-65. Il resto della popolazione bazzica social media, blog, siti di informazione alternativa, integra da sola le fonti e i frammenti. Oggi il messaggio di propaganda pura, tradizionale, non è più efficace come prima.

 

Le prove?

Brexit, in cui tutti i media tradizionali erano schierati contro, in un clima di terrorismo psicologico. Poi il voto Usa: il mondo doveva crollare, invece il giorno dopo tutto è andato bene come il giorno prima, mercati compresi. Oggi la gente non crede più che l’Italia andrebbe a catafascio se il Sì dovesse perdere.

 

I sondaggi restituiscono da tempo la stessa situazione, il No davanti ma di poco e il Sì che insegue. Secondo lei sono veritieri o no? 

Bisognerebbe chiederlo ai sondaggisti…

 

Naturalmente. Ma si sentirebbe di escludere un uso politico dei sondaggi?

L’uso politico c’è senz’altro. Lo abbiamo visto anche nella campagna americana. Tra tutti i sondaggi che uscivano, ad azzeccare il trend sono stati quelli nettamente minoritari. 

 

Lei lo ha scritto un mese prima del voto: attenzione, perché Trump sta rimontando. 

Il fatto è che in Italia mi pare non ci siano finora sondaggi distonici. Se ci fossero uno o due sondaggi autorevoli e credibili che costantemente restituissero un dato in controtendenza, allora dubitare dei sondaggi sarebbe lecito. Attualmente invece cambiano le cifre, ma la tendenza è la stessa. Che poi il No sia più o meno davanti, non ho elementi per dirlo e non posso fare previsioni.

 

Secondo un sondaggio di Tecnè del 12 novembre gli indecisi sono il 16,5%, mentre la percentuale del non voto è al 50%. Cosa dice questa quota di indecisi, se vi mettiamo anche coloro che oggi non hanno intenzione di recarsi alle urne? 

Significa una cosa sola, che la gente non capisce. Il tema è complesso, e i dibattiti che si susseguono in tv non fanno altro che confondere ancor di più. L’ascoltatore raccoglie la proposta del Sì e la fa sua, ma quando sente il No comincia a dubitare, così che l’effetto ultimo è “non so, anzi non so nemmeno se a questo punto valga la pena votare”.

 

Quindi?

Quindi Renzi cerca di superare queste difficoltà con lo spin estremo. Alla fine si riduce tutto al portare gli elettori dalla propria parte mediante l’affabulazione. All’inizio questo gli riusciva, poi senza risultati tangibili il gioco ha cominciato a non funzionare. Per capirci, non so se la gente comprerebbe più da lui un’auto usata.

 

Per dirne una: lunedì scorso Renzi è comparso in aula, alla Cattolica di Milano, al seguito del rettore Franco Anelli, per una — così definita — “lezione-incontro”. In altri tempi, anche assai recenti, i principali giornali avrebbero parlato di prove di regime. 

Il problema di Renzi è che su internet si dice esattamente quello che dice lei. E lei mi chiederà: ma in quanti lo sanno? Oggi un numero molto elevato di persone si informa attraverso i social media. Ieri le campagne dei grandi giornali avevano un effetto molto rilevante, lo chieda a Berlusconi. L’ex Cavaliere controllava le tv, ma la resa mediatica era disastrosa perché aveva tutto contro. Oggi se un post è fatto bene può avere migliaia di contatti.

 

Ed è una contro-informazione efficace?

Moltissimo, più di quanto si pensi, perché è one to one e per questo viene percepita come più personalizzata e credibile dell’informazione ufficiale. Non è un caso che oggi i giornali assistano a un crollo delle vendite. 

 

Se la diagnosi è cosi semplice, perché Renzi continua a sbagliare?

Renzi è uno che sa comunicare molto bene, però oggi è un fatto che tutti i leader politici al governo nell’arco di due-tre anni subiscono lo stesso effetto: entrano in una bolla e non riescono più a capire il paese. 

 

(Federico Ferraù)

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