Nella lunga intervista in cui Beppe Grillo ha detto a Euronews “chiederemo a papa Francesco di pagare l’affitto per i musei vaticani” – battuta a cui senza dubbio si è data troppa attenzione – il fondatore del Movimento 5 Stelle ha parlato a tutto tondo non solo d’Italia ma, anche, del futuro della democrazia nelle economie avanzate. Grillo ha descritto il nuovo modello di democrazia diretta di cui il M5S è fautore, nulla di apparentemente nuovo rispetto a quanto lo ha reso celebre. Tuttavia, il punto è che – alla luce di qualche suo inciso – il governo del popolo di cui parla il leader dei 5 stelle pare ingenuo e pericoloso.
In sintesi, la democrazia diretta consisterebbe nel diretto contatto, attraverso il web, tra il Parlamento e i cittadini-elettori. Bisogna fare una legge sull’agricoltura? Chi meglio di un agricoltore – dice Grillo – sa di cosa stiamo parlando e come si può legiferare? Al di là del fatto che, nella fattispecie, non tutti gli agricoltori possono avere così chiaro quali sono i propri bisogni, non è nemmeno detto che le esigenze di ciascun agricoltore coincidano. Questo è il compito di mediazione che, nelle economie avanzate, viene assolto dai corpi intermedi. Grillo obietterà che i sindacati e la Confindustria – ad esempio – non servono più a nulla, si tratta oramai di vecchi carrozzoni.
Chi scrive, da tempo si sforza di proporre idee e soluzioni per superare la crisi della rappresentanza. E, a questo punto, si chiede: si può ambire a parlare di nuovo modello di democrazia dando per assodato che i suoi pilastri – le forze sociali – vadano cancellate dall’impalcatura istituzionale? La verità è che Grillo ha un’idea ingenua e malsana della democrazia, un sistema disintermediato come quello che lui descrive è statalismo pesante e pericoloso, è l’anticamera dell’autoritarismo.
Se veniamo ai problemi della rappresentanza del lavoro di casa nostra, un po’ a causa della poca capacità dimostrata nel rispondere ai cambiamenti dell’economia globale, un po’ per la crisi del 2008 che ha sconquassato molti equilibri, certamente oggi ne percepiamo i limiti a occhio nudo. In origine e prima di tutto, la rappresentanza è della persona prima ancora che del suo interesse. Il bene della persona – questo è l’obiettivo della rappresentanza – può, in circostanze particolari, non coincidere col suo interesse diretto; la difesa dell’interesse a oltranza è ciò che uccide la rappresentanza.
Se consideriamo il caso del referendum della scala mobile del 1985, capiamo come esso è prova di grandi motivazioni, che hanno impedito uno scontro che stava diventando di piazza. Il 14 febbraio del 1984 Bettino Craxi, il primo Presidente del Consiglio socialista della nostra Repubblica, varava il “decreto di San Valentino” con il quale tagliava di tre punti la scala mobile, meccanismo automatico di crescita salariale che legava direttamente le buste paga dei lavoratori all’aumento del costo della vita e che negli anni Ottanta fu corresponsabile di una forte inflazione. Non trovando consenso unitario tra le forze sociali, Craxi decise di varare il decreto con il quale i 3 punti di scala mobile venivano tagliati, proprio il 14 febbraio 1984, giorno di San Valentino. Nella primavera dell’anno successivo, il provvedimento veniva confermato da un referendum nel quale i favorevoli al decreto vinsero con circa il 54% dei voti.
Se oggi ci fosse un referendum come questo, la gente non andrebbe nemmeno a votare. Allora la maggioranza degli italiani aveva deciso non solo di votare, ma di votare contro se stessa, di rinunciare a qualcosa di suo e di perderlo in funzione del bene comune. La scelta, naturalmente, era maturata nei luoghi della rappresentanza, che, in quel momento, era stata capace di promuovere partecipazione e tensione ideale.
Ecco perché non possiamo farne a meno: dobbiamo tornare ad animare i luoghi della rappresentanza come luoghi del cambiamento perché, come diceva il grande Alexis de Tocqueville, nulla vi è che la natura umana disperi di raggiungere con l’azione libera del potere collettivo degli individui.
Twitter @sabella_thinkin