“La politica è la più alta forma di carità”, diceva papa Montini. Appunto: lasciamola perdere, allora, verrebbe da dire dopo aver ascoltato quel vero e proprio “Manifesto del Partito Clientelista” enunciato dal Presidente della Campania Vincenzo De Luca davanti a 200 suoi sindaci e sindaconzoli riuniti in una sala privata a Napoli. Se la carità è l’elemosina di soldi in cambio di voti, anche no. Lasciamo perdere questa politica ridotta ad accattonaggio protervo.
De Luca, convinto che non ci fossero orecchie indiscrete in quella sala dell’Hotel Ramada di Napoli, le ha sparate grosse, anzi grossissime: ma un Giuda c’era, e chissà De Luca quante gliene ha sparate contro, purtroppo senza registratore, quando l’ha saputo.
In realtà, quel discorso ai sindaci, a porte finto-chiuse, non era una “sparata”, era il De-Luca-pensiero doc. Era il verbo del clientelismo politico, puro e semplice, di ieri, di oggi e di sempre, il teorema del voto di scambio eretto a sistema. Impudico, diversamente dallo stile che si usava perfino nella Campania del cinquantennale regno democristiano. Ma era lo stile, diverso, non la sostanza.
In questo senso l’aggressività ormai macchiettistica di De Luca ha il merito – se non altro – di far emergere le vergogne di questa sottopolitica da tempi di crisi, da tempi di pre-troika, perché è chiarissimo che con questi sistemi non si va da nessuna parte, altro che ripresa economica.
Viene in mente Maurizio Ferrini, quel personaggio di Renzo Arbore – “Quelli della notte”, 1985 -che faceva il comunista doc e spesso, dopo un’ardita spiegazione politica, si fermava di botto e concludeva: “Certe cose, non si possono dire!”. Invece De Luca le dice, onore al merito. Le pensa e le dice. Poi certo, non vorrebbe che i giornalisti sentissero: ma duecento persone che ascoltano, sono già un numero vicino all’infinito. Ed è l’imprudenza che perde chi si sente troppo in alto, troppo bravo, troppo forte, troppo tutto.
Il segretario del partito di De Luca, nonché premier di tutti noi italiani, Matteo Renzi, lo appoggia, il governatore che gli vuol portare i voti: sembra una notizia, ma per i lettori del Sussidiario non lo è. Il premier sa benissimo una cosa: il pressing forsennato che il suo Super-Ego lo ha spinto a fare per un “sì” a un referendum che la stragrande maggioranza di noi elettori non capisce, al Sud sta avendo un effetto controproducente. Il popolo (in greco, “demos”, radice di democrazia), abituato da secoli a essere trattato da suddito e non da cittadino, quando si vede pressato da qualsiasi appello politico s’irrigidisce e s’ingrugnisce: “Dov’è la fregatura?”, si chiede. Renzi lo sa, e De Luca glielo spiega.
E i sudditi vanno trattati da sudditi. Ci vuole la festa e la farina, e quando è il momento la forca: diamo tempo al tempo, arriverà anche quella. Ma adesso è il tempo della festa e della farina, per cui Renzi promette la Salerno-Reggio Calabria finita per Natale, e non lo sarà; promette il Ponte sullo Stretto, che non si farà; conferma solo per il Sud gli sgravi del Jobs Act, e quelli ci saranno, come trent’anni fa c’erano i “lavori socialmente utili” per distribuire quattrini a sfaccendati disoccupati che tali, sostanzialmente, restavano. Il Sussidiario li ha ricordati ed enumerati, questi oboli al popolo-suddito, purché voti “sì”.
È il tempo della festa e della farina, per cui De Luca lo dice, chiaro e tondo, al discusso ma fedelissimo sindaco di Agropoli: “Fai quello che cazzo vuoi, ma porta 4mila persone a votare”. Lo dice coloritamente, fa anche ridere: “Offrigli una frittura di pesce, fai quello che vuoi, ma falli votare!”. “Dobbiamo mobilitarci, andare tutti porta a porta, per venti giorni non dovete pensare ad altro”, e Renzi lo appoggia.
“Enzo De Luca”, ha detto Renzi, “ha un metodo che non è il mio, ma se tutto il Sud fosse stato amministrato come Salerno, avremmo un punto di Pil in più e io ho un problema di Pil perché il Nord è ripartito anche se ancora si può fare meglio ma se non parte il Sud siamo rovinati”. Punto. Fermiamoci con i dettagli. De Luca vuole soldi per la sua Campania, a modo suo è in buona fede, e Renzi glieli dà. In cambio, lui gli porta i voti. Chiedersi se servono davvero, quei soldi in più, o se basterebbe spendere bene quei tanti che già si sono? No. Servono più soldi. Per avere in cambio più voti. Basta. E Renzi cita come un suo successo il boom turistico di Pompei e della Reggia di Caserta (e mettiamoci pure Paestum), che peraltro non derivano dai soldi in più, ma da due direttori con gli attributi (De Luca sarebbe più esplicito).
Ma allora liberi tutti: c’è la crisi, ci vogliono soldi, mettiamoceli; si sfora il rapporto deficit/Pil, mettiamo il veto al bilancio europeo (niente veto, in realtà, non è il momento, ma tant’è); ci vogliono soldi, “facciamo come cazzo vogliamo”, ma portiamo gli elettori a votare. Se no, arrivano i populisti di Grillo o della Lega, come quelli di Trump. Che depressione. Depressione perché la sensazione è che abbiano ragione loro, quelli del voto di scambio. Settant’anni fa era uguale: il comandante Achille Lauro, ras napoletano degli anni Cinquanta, faceva così: una scarpa prima del voto, l’altra solo se vengo eletto, dopo il voto. Se funziona così, che altro fare? Del resto, alle primarie del Pd, non c’erano forse i seggi dove pur di far votare la gente in un certo modo gli si rimborsava l’euro dovuto al seggio? E allora, sparata per sparata: ma che democrazia è questa, un tot a voto, un tanto al chilo? E che classe dirigente è? E che elettorato è?
P.S.: sotto la soglia della qualificabilità, il presidente del Pd Matteo Orfini, che ha definito “una battuta” quello che era un vero e proprio discorso operativo elettorale di De Luca. Alla faccia della battuta. E nel gioco della torre, buttiamo giù Orfini: almeno De Luca fa ridere, ricorda Crozza.