La legge ordinaria ha natura di comando. La legge costituzionale, costruita attorno a principi condivisi cui la legge ordinaria nei suoi comandi non può contraddire, ha natura pattizia. Abbisogna, cioè, nella sua logica del più ampio consenso parlamentare e sociale. Ha una logica unitiva nella sua costruzione per la sua tenuta politica e sociale. Motivo per cui la Costituzione chiede più letture delle sue modifiche, e i due terzi delle maggioranze parlamentari. 



Una premessa, che ci aiuta a capire il pessimo clima che, più si avvicina il 4 dicembre, più avvelena il confronto referendario. Già il ricorso al referendum, in assenza dell’ampia maggioranza parlamentare che sarebbe stata necessaria, è il segno di un processo inceppato. Per come si sono messe le cose, è proprio la logica unitiva del processo costituente che è saltata. Fondamentalmente fin dall’inizio, giacché nel suo cammino parlamentare per iniziativa del governo, e nella più generale sua conduzione politica, la legge costituzionale è stata trattata come legge ordinaria, come se avesse natura di comando. Il che spiega che chi non si adegui, dall’essere dissenso politico e costituzionale di merito, alla fine — all’intoppo del consenso richiesto — possa scadere ad “accozzaglia”. Nelle parole c’è l’animus dei processi. Dubitiamo a questo punto che nelle ultime decisive settimane vedremo, da parte dei due fronti, del Sì e del No, un approccio costituente, uno spirito unitivo; che si sta cioè scegliendo qualcosa di comune e di accomunante, da cui tutti poi si debbano sentire garantiti. Su questo punto è già andata male, come che vada. 



Ma veniamo al punto di merito di questo passaggio istituzionale e politico. Si cambi o meno l’Italicum, il tema dell’intreccio tra riforma costituzionale e Italicum resta sostanziale ai fini di un giudizio per il Sì o per il No. Per il modo stesso in cui è stato impostato politicamente il quesito. Perché l’intreccio tra riforma costituzionale e Italicum è tale, ai fini dell’operazione istituzionale e politica sottesa al referendum del 4 dicembre, che chi non la condivide non può che votare No sia che l’Italicum venga mantenuto sia che la riforma venga sganciata dalla legge elettorale cui si appoggia. 



Il motivo è semplice: la riforma Boschi-Renzi può avere chance di funzionamento, per com’è concepita, solo grazie al combinato disposto con la “sua” legge elettorale ipermaggiorataria, l’Italicum, senza la quale la riforma produce con certezza, a parere del meglio del costituzionalismo italiano, ma anche solo di una spassionata analisi del testo, solo un peggioramento della funzionalità delle istituzioni.

In un bicameralismo non paritario, qual è quello proposto, differenziato per funzioni, che genera (almeno) otto modi diversi di produzione legislativa, che su rilevanti materie richiede il voto di Camera e Senato e in caso di disaccordo si affida a un accordo tra i loro presidenti, senza clausola di “chiusura” (cioè non è previsto come il disaccordo si componga), la possibilità che il meccanismo non si inceppi è legata solo al fatto che ci sia una fortissima maggioranza politica garantita a priori dalla legge elettorale e in grado di “forzare” quando necessario le complicazioni del processo legislativo. 

Precisamente ciò che deve fornire una legge elettorale ipermaggioritaria come l’Italicum, che consente anche a una forza politica che conti su non più del 25 per cento dell’elettorato di prendere con 340 seggi la maggioranza assoluta alla Camera, ipotecando tutte le maggioranze nevralgiche per le istituzioni: dal Presidente della Repubblica alla Corte Costituzionale. Solo questo concentrarsi del potere in capo al leader della maggioranza uscita dalle urne, la sera stessa del voto, può far funzionare il meccanismo. Che è la tesi intellettualmente onesta dell’inventore dell’Italicum, Roberto D’Alimonte. E che resta la fondamentale convinzione di Renzi, e spiega la sua renitenza ad abbandonare, al di là dell’Italicum, l’idea di una legge elettorale ipermaggioritaria che faccia sapere agli italiani la sera stessa del voto chi ha vinto; in altri termini un effetto presidenziale, anche in un contesto che formalmente resta di democrazia parlamentare.

Ma se questo è vero, allora è anche vero che con l’Italicum la riforma costituzionale consegue un drastico mutamento della forma di governo, che, se non si vuol chiamare autoritario, è certamente uno sbilanciato rafforzamento della “democrazia che decide”, della democrazia del leader, con annesso strumentario elettorale e istituzionale per farla funzionare, a scapito della democrazia rappresentativa. Quindi il mutamento della forma di governo c’è, e spinge al No, per chi non lo condivide. La favola che non siano rafforzati i poteri del premier è appunto una favola, e oltretutto non si capirebbe allora perché tanto rumore per nulla.

Ma anche se fosse abolito l’Italicum, cioè una legge elettorale ipermaggioritaria, bisognerebbe votare No, perché in questo caso avremmo un peggioramento funzionale grave delle istituzioni e della produzione legislativa. Se con il combinato disposto il No si giustifica per il mutamento in un presidenzialismo di fatto, sgrammaticato e senza istituzioni di garanzia, della forma di governo, senza il combinato disposto con l’Italicum, il No si giustifica per il drastico peggioramento della funzionalità delle istituzioni. Il No in ogni caso è una strada obbligata per uscire da un vicolo cieco mal pensato e peggio costruito per le nostre istituzioni.

E pensare di uscirne con un Sì estorto per motivi di contesto — lo spread, i mercati, gli investitori esteri — con l’assicurazione di accompagnamento che “poi quello che non va lo aggiusteremo”, sarebbe una toppa peggiore del buco, perché questo vorrebbe dire che la stabilità dell’Italia non sta nell’autocentratura, nell’efficienza delle sue istituzioni, ma è rimessa alle oscillazioni di istanze economiche e finanziarie che le sovrastano e alle decisioni politiche che si adeguano. E’ un programma cioè di instabilità istituzionale permanente.

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