Esiste certamente una crisi della democrazia rappresentativa nella parte di mondo, l’Occidente, dove è stata fondata e realizzata. Ma non è la prima volta che questo accade e, in genere, dove il sistema democratico ha coltivato gli anticorpi necessari, le crisi sono passate e i Paesi hanno continuato a vivere in un sistema largamente imperfetto, sapendo comunque che “purtroppo non c’è nulla di meglio”. Oggi si parla di una sorta di accerchiamento “populista” alla democrazia e della caduta delle culture politiche tradizionali, soprattutto di quella cattolica-cristiana e di quella socialdemocratica.



Uno sguardo generale appare superficiale e non tiene conto delle realtà particolari, dei singoli Paesi. Appare un po’ semplicistico assimilare la Brexit, l’uscita dalla Gran Bretagna dall’Unione Europea e la vittoria dello stesso Donald Trump negli Stati Uniti, alla crisi delle culture politiche di una gran parte dell’Europa. Se solo si riguarda storicamente, anche con scarse letture, la crisi del primo dopoguerra mondiale e poi la successiva grande crisi del 1929 negli Stati Uniti e nel mondo, ci si accorge che crollarono le più fragili democrazie dell’epoca: l’Italia e la Germania nel giro di dieci anni. Eppure la crisi aveva interessato gli Stati Uniti, con un’intera generazione di scrittori e di intellettuali che aveva “sposato” il comunismo, e con masse tali di disoccupati che solo Franklin Delano Roosevelt e il suo grande aiutante Harry Hopkins riuscirono a tenere a bada e a rassicurare.



Nella stessa Inghilterra c’era una parte della classe dirigente, compreso il famoso re dimissionario Edoardo VIII, “che guardava alla Germania” e non esistevano solo i fenomeni folkloristici alla Oswald Mosley. La figuraccia di Monaco fatta da Neville Chamberlain nel 1938 fu smascherata dal discorso solitario ai Comuni di un grandissimo Winston Churchill, con queste parole epiche: “E’ la più grande sconfitta che l’Inghilterra abbia mai subito”.

Vinsero alla fine tradizioni radicate e un dna democratico che non veniva mai messo in discussione dalla grande maggioranza della popolazione e da una classe dirigente storicamente abituata alla democrazia. In un contesto del tutto differente, oggi si assiste alla caduta, all’appannamento e allo scarso potere di attrazione di culture democratiche che si sono sviluppate nel secondo dopoguerra. In Europa si guarda soprattutto alla crisi della grande tradizione socialdemocratica, che poi è quella del socialismo riformista o di origine laburista, che ha letteralmente abbandonato i capisaldi della rappresentanza delle classi più deboli, abbracciando la logica del capitalismo soprattutto in chiave finanziaria.



Fu addirittura il leader laburista Tony Blair, in accordo con il democratico americano Bill Clinton, e in parte con il tedesco Gerhard Schroeder, a cavalcare globalizzazione, scambi finanziari mondiali e una politica di privatizzazione e di liberalizzazioni senza precedenti. 

Forse non avevano calcolato che una globalizzazione di tale portata avrebbe certamente liberato dalla fame una parte della popolazione del nuovo mondo emergente, ma avrebbe provocato gravi contraccolpi in alcuni classi dei paesi occidentali. Si può vedere facilmente che questo fenomeno di abbandono dei partiti riformisti comincia fin dal 1992.

Ma le crisi di democrazia in tanti paesi occidentali appaiono particolarmente delicate oggi in due “paesi”: l’Italia e la Francia. A Parigi oggi si gioca una partita fra tre destre (Le Pen e due “reduci” del gollismo) e i resti di una sinistra che fu solamente resuscitata da François Mitterrand, dopo che c’era stata un’egemonia comunista tra le più settarie di Europa. Il Pcf di Maurice Thorez non partecipò neppure al Fronte popolare del socialista Leon Blum, l’unico governo che appoggiava la Repubblica spagnola in lotta con il franchismo. Lo stesso Pcf appoggiò il patto tra comunisti e nazisti nel 1939 e nessuno può dimenticarsi che il quotidiano comunista L’Humanité, quando fu eletto Hitler, titolò: “Il minore dei mali”.

Un simile partito non poteva che essere destinato a sparire e a provocare le critiche più documentate e pesanti al comunismo francese e mondiale. Furono i “nouveaux philosophes” francesi a contestare fin degli anni Settanta il comunismo. Fu Stéphane Courtois a scrivere Il libro nero del comunismo europeo, i crimini, il terrore, la repressione, che indusse un intellettuale di sinistra italiano, come Norberto Bobbio, a stilare una condanna storica terribile del comunismo, come un sistema criminale. Difficile immaginare come finirà la democrazia francese: il rischio lepenista c’è e sembra una reazione all’incapacità di una reale politica di integrazione, tra la vecchia Francia colonialista e la nuova Francia multiculturale. E’ un fenomeno particolare, che non è semplice affrontare e che sinora la classe politica francese democratica non ha saputo risolvere.

Il rischio italiano è di carattere diverso, ma rappresenta ugualmente una situazione di pericolo. In Italia si è affermato un movimento di protesta che appare moderato nella sua azione, ma che è pericolosamente un intreccio tra dilettantismo e giustizialismo. E’ il Movimento 5 Stelle del comico Beppe Grillo. Sembra la svolta finale di una crisi innestata nel 1992 su una democrazia fragile, per due motivi principalmente.

Da un lato la spinta di una cultura politica cattolica che si era esaurita presto con l’esperienza di Alcide De Gasperi e qualche altro leader. Di fatto, De Gasperi è l’uomo più aperto e più innovatore nel dopoguerra: ha grande fiuto politico, ottimi rapporti con gli alleati occidentali, è consapevole della necessità di dover governare con una coalizione, altrettanto consapevole di potersi fidare di laici nella gestione economica e finanziaria del Paese. In più, De Gasperi sa di rappresentare con la Democrazia cristiana una diga contro il comunismo, che ha violato alcuni punti dell’accordo di Yalta: colpo di Stato in Cecoslovacchia, destabilizzazione in Polonia, rovesciamento del risultato elettorale in Ungheria. 

L’Unione Sovietica ha rosicchiato il possibile, ma non può spingersi oltre perché persino la Jugoslavia rivendica una sua autonomia dal blocco sovietico e l’Italia è intoccabile per l’Alleanza Atlantica. La cultura politica cattolica gode, per anni, più di una posizione di rendita invece che rappresentare un’autentica alternativa moderna democratica. E’ un limite, un grave limite.

L’altro fatto negativo è la presenza in Italia non di una tradizione socialdemocratica o di riformismo socialista, ma di massiccia presenza comunista, ambigua, che predica nello stesso tempo la rivoluzione e la “via italiana al socialismo” all’insegna di una cosiddetta “democrazia progressiva”. Ci vorranno anni per accettare l’Europa e la Nato, dopo la genuflessioni al blocco del Patto di Varsavia. La via d’uscita a tutti gli errori la trova un’improbabile ed evanescente “questione morale” Enrico Berlinguer. Una scelta politicamente paracomica che servirà solo alla magistratura.

Nel Pci ci sono stati autentici riformisti, primo tra tutti Giorgio Amendola, che cercano di cambiare addirittura il nome al partito. Almeno in cinque occasioni: nel 1956, nel 1961, nel 1964, nel 1979, nel 1981 ci sono battaglie durissime dei riformisti all’interno del Pci. Vengono sempre sconfitti, così come furono sconfitti i riformisti di sinistra nella storia italiana. Salvo poi pentirsi sempre in ritardo.

I comunisti Umberto Terracini e Camilla Ravera dissero nel 1969 che era giusto il discorso di Filippo Turati nel 1921. Non è vero che è sempre “meglio tardi che mai”.

Togliatti, alias Ercoli, alias Alfredo, alias Mario Correnti, alias Roderigo di Castiglia sarà sempre perdonato da una storia ben poco documentata dai nostri storici accademici: sulla svolta di Salerno, sui torbidi di Barcellona, sulla liquidazione del Pc polacco, sul brindisi del 1956 per l’invasione russa in Ungheria, sul voto per la morte di Nagy.

E’ stato così seminato un terreno avvelenato, in cui è impossibile reagire oggi, così come era impossibile reagire nel 1992, quando fu salvato il “resto” del partito di Togliatti insieme ai fascisti dalla magistratura “democratica e interventista”.

Il rischio è che proprio qui, in Italia, tra una cultura politica cattolica che ha esaurito il suo compito storico da tempo e un postcomunismo ormai da operetta, sia all’orizzonte la “repubblica iraniana” d’Occidente. La rissa sul referendum costituzionale può essere solo l’antipasto di questo prodotto culturale.