Caro direttore,
Si avvicina il referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. Non credo sarà una redde rationem come taluni paventano e altri, forse, sperano. Sarà un momento in cui gli elettori giudicheranno la più vasta riforma della nostra Costituzione dal ’47 ad oggi. Ed è bene che il giudizio sia sul merito, visto che i Renzi, i Grillo e i Salvini passano. La legge fondamentale dello Stato invece rimane per i prossimi decenni. Il mio No, pertanto, è sul contenuto e sugli effetti duraturi nel tempo che un’approvazione di esso produrrà inevitabilmente.
Sul rischio che questa riforma riduca la pluralità di istituzioni e i limiti di competenza e diritto che individuano e bilanciano i poteri all’interno di uno stesso Stato ho già scritto sul suo giornale. La tesi per cui lo Stato centrale ingrassa, passando da 17 a 32 materie competenti, a danno degli enti locali e dei contribuenti, l’ho già sostenuta nella lettera pubblicata il 16 ottobre scorso. Come la preoccupazione che il parere preventivo della Corte costituzionale addirittura sulle proposte di legge elettorale snaturi la vocazione di sindacato ex post di quel tribunale e acceleri il processo di “giudiziarizzazione” della vita democratica, intrapreso almeno da Tangentopoli ad oggi.
Tuttavia c’è un altro aspetto della riforma, spesso indicato come quello più condivisibile anche da chi si accosta in modo critico al testo, meritevole di un approfondimento. Lo slogan lo conosciamo ormai molto bene: superamento del bicameralismo perfetto. Nel corso di questa campagna referendaria non ricordo di aver sentito alcuno essere contrario di principio. Il problema, allora, sta nella realizzazione di questo obiettivo condiviso dai più.
L’attuale riforma trasforma il Senato della Repubblica in una camera che “rappresenta le istituzioni territoriali” (art. 55). Nel nuovo art. 57 è previsto che i consiglieri regionali “eleggono, con metodo proporzionale, i senatori fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei propri territori”, “in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri” e i seggi sono attribuiti “in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio secondo le modalità stabilite dalla legge”.
Si tratterà di una elezione di secondo livello. Cioè quello che dopo il varo della legge Delrio già avviene per Province e Città metropolitane: i consiglieri comunali di maggioranza e opposizione votano tra di loro quelli provinciali o metropolitani. E in attesa di una norma nazionale che disciplini la modalità di elezione dei nuovi senatori in caso di vittoria del Sì, l’articolo 39 delle disposizioni transitorie che accompagnano le modifiche costituzionali sancisce che questa avverrà con metodo proporzionale su liste bloccate. In sostanza: i coordinatori regionali dei partiti presenti nei consigli regionali si metteranno a tavolino per assemblare in base a precise quote liste elettorali (verosimilmente una di maggioranza e un’altra o più d’opposizione) e dividersi i voti in modo da determinare la composizione della delegazione di senatori della propria regione.
Inoltre, prosegue l’articolo 39, “per la lista che ha ottenuto il maggior numero di voti, può essere esercitata l’opzione per l’elezione del sindaco o, in alternativa, di un consigliere nell’ambito dei seggi spettanti”. Che tradotto significa: i 21 sindaci che comporranno il nuovo Senato saranno con molta probabilità espressione delle maggioranze consiliari delle rispettive regioni d’appartenenza. Così, per assurdo, la Lombardia potrebbe annoverare tra i suoi delegati un primo cittadino di un piccolo comune, poiché la maggioranza di centrodestra che la governa ha perso tutti quelli capoluogo. Il problema si acuisce con le dieci regioni di piccole dimensioni cui sono attribuiti due senatori, prefigurando la rappresentanza della sola maggioranza che in un determinato momento governa la regione. Se a ciò si aggiunge l’assenza del vincolo di mandato (cfr. art. 67) anche per i parlamentari che dovrebbero rappresentare i territori (cosa che invece ha valore in rappresentanza dell’interesse nazionale), è del tutto evidente che la composizione del Senato sarà caratterizzata non tanto dall’appartenenza regionale quanto dall’affiliazione politico-partitica.
Il doppio mandato dei 74 consiglieri regionali e 21 sindaci, unito al volontariato politico che caratterizzerà il loro impegno nel nuovo Senato (perché le riforme sono state fatte al grido di “affamiamo la bestia!”), farà il resto, rendendo difficile assolvere all’obbligo di presenza dell’articolo 64. Del resto è quello a cui si è assistito laddove si è già applicata l’elezione di secondo livello per un organo istituzionale. Nella Città metropolitana di Milano, per esempio, nella commissione che ha dovuto redigere nel 2014 lo Statuto del nuovo ente la media di assenze è stata del 39,4% e, dopo l’approvazione del documento da parte dell’aula, anche quelle nel Consiglio metropolitano sono salite al 20%; quella meno frequentata è stata la commissione affari istituzionali con un tasso d’assenteismo addirittura del 58,6%. Tuttavia qualche senatore più incentivato a partecipare ci sarà. Saranno quelli eletti tra i consiglieri regionali nelle liste espressione dei gruppi politici di opposizione presenti nella Camera dei deputati. E basteranno una trentina di questi per richiamare qualunque legge monocamerale e cercare di mettere in difficoltà la maggioranza di governo e allungare i tempi di approvazione di una legge. Con buona pace di chi avrebbe voluto superare davvero il bicameralismo paritario. E con il rischio di alimentare l’antipolitica, che la stessa riforma avrebbe voluto contrastare con istituzioni più efficienti ed efficaci. E non preda dei cosiddetti giochini di palazzo.