Il quesito del 4 dicembre non li nomina, ma la riforma prova a ridisegnare anche gli istituti di democrazia diretta. E lo fa in tre modi diversi.

1. In primo luogo modifica la disciplina dell’art. 75 Cost. in punto di referendum abrogativo, riscrivendo la disciplina del quorum di partecipazione. Se le firme raccolte sono oltre le 500.000, ma non raggiungono la soglia delle 800.000, nulla cambia. Se le firme superano le 800.000 il quorum per la validità della consultazione non è più calibrato sulla metà degli aventi diritto al voto, come è stato finora, ma sulla metà della percentuale dei votanti nelle ultime elezioni politiche (che diverrebbero poi le elezioni della Camera dei Deputati). 



Così, per intenderci, se a votare si reca, come ormai è abitudine, il 65% circa degli aventi diritto, il quorum sarebbe fissato al 33% degli aventi diritto al voto e non più al 50%. Anche il referendum abrogativo diverrebbe, insomma, un istituto a geometria variabile, a seconda che le firme raccolte siano oltre le 500.000, ma non raggiungano la soglia delle 800.000.



Si tratta di una modifica intesa ad intervenire sul funzionamento delle consultazioni referendarie, stante che dal 1997 al 2009 nessuno dei referendum proposti ha raggiunto il quorum previsto dall’art. 75. 

2. In secondo luogo si introdurrebbero, alla fine dell’art. 71 attuale, i “referendum propositivi e di indirizzo“, nonché “altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali”. 

Va detto però che l’entrata in vigore della riforma non sarebbe sufficiente ad istituire queste nuove tipologie di consultazione: tutto sarebbe rinviato — per espressa volontà del legislatore — ad una successiva legge costituzionale, da approvarsi in seguito: “la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e di indirizzo”. Mentre “le modalità di attuazione” di questa legge costituzionale dovrebbero essere fissate con “legge bicamerale” ai sensi del nuovo art. 70. 



Il rinvio ad una fonte successiva non è una cosa nuova: anche la Costituzione del ’48 prevedeva l’istituto del referendum abrogativo e si sa che fino alla approvazione, 22 anni dopo, della l. 352/1970, il referendum è restato sulla carta. 

Il punto è che l’art. 75 disciplinava direttamente, già nel 1948, il profilo del referendum, definendone effetti, casi di inammissibilità e, come si è visto, quorum di partecipazione. E rinviava ad una legge ordinaria successiva la definizione delle modalità di svolgimento delle consultazioni.

Qui si adotta una tecnica molto diversa: si dice, in una legge costituzionale, che una successiva legge costituzionale istituirà i referendum propositivi e di indirizzo. La riforma, insomma, non inserisce questi istituti nell’ordinamento, ma rinvia ad una riforma successiva

Il che lascia ben capire quale sia la portata normativa di questa prescrizione che, per quanto possa riuscire paradossale, è praticamente pari a zero. La cosa sarebbe stata diversa se il testo novellato dell’art. 71 avesse semplicemente rinviato ad una legge ordinaria (o bicamerale, nel nuovo linguaggio della riforma) per le modalità di attuazione, come si era fatto nel 1948. Ma il richiamo ad una futura legge costituzionale lascia capire che, anche a riforma approvata, i referendum propositivi e di indirizzo resteranno puro flatus vocis fino alla conclusione di un altro procedimento legislativo ex art. 138 Cost., identico a quello in corso e da avviarsi successivamente. 

Non è detto che questo sia un male: i referendum propositivi (quelli, cioè, che riguardano un testo di legge redatto dal corpo elettorale e destinato ad entrare in vigore a meno di un voto oppositivo delle Camere) ed i referendum di indirizzo (quelli con cui il corpo elettorale esprime un desiderio o un indirizzo che il legislatore non è giuridicamente tenuto a  recepire) sono già presenti da tempo negli ordinamenti regionali e negli statuti comunali. E non hanno mai dato grande prova di sé, stante la debolezza di effetti giuridici che producono: una debolezza di effetti che ha nuociuto grandemente alla loro diffusione. E sempre dagli statuti regionali (Emilia Romagna, Toscana e, in parte Lombardia) e dalla stagione statutaria di dieci anni fa sono ricavate “le altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali” che si vorrebbero inserire in Costituzione.

3. Il terzo intervento riguarda l’iniziativa legislativa popolare. Al momento l’iniziativa legislativa popolare è prevista dall’art. 71, per cui “Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli”. E’ dal 1948 insomma, che il corpo elettorale può redigere proposte di legge da presentare alle Camere: proposte di legge nessuna delle quali è mai stata trasformata in legge da parte delle Camere. In questa prospettiva la riforma innalza la soglia per la presentazione di queste proposte, che vanno da 50.000 a 150.000 firme. Prevede, però, che i regolamenti parlamentari stabiliscano tempi e forme della discussione e della deliberazione conclusiva inerente a queste proposte.

Anche qui ci si trova innanzi non all’introduzione di una disciplina, ma semplicemente al rinvio a fonti extracostituzionali (e cioè ai regolamenti di Camera e Senato) della disciplina di un istituto.

Vale solo la pena di ricordare (art. 64, qui invariato) che i Regolamenti sono approvati da ciascuna Camera a maggioranza assoluta dei suoi componenti. E che l’adattamento dei regolamenti alle prescrizioni previste dal nuovo art. 71 sarebbe un atto discrezionale di ciascuna Camera. E che non ci sarebbe alcuna sanzione giuridica nei confronti di una eventuale inerzia delle Camere.

Leggi anche

SCENARIO/ Mattarella e papa Francesco indicano la strada all'Italia divisaSCENARIO/ L'alt di Mattarella ai "gestori" della volontà popolareI NUMERI/ Così la crisi ha spaccato l'Italia