Comunque vada, sarà scissione. A 27 giorni dall’R-Day, il giorno del referendum, il giorno della verità, la Leopolda 7 segna una drammatica cesura in casa democratica. Scolpito nel marmo rimarrà il “fuori, fuori” urlato dalla platea all’indirizzo della minoranza dem. Un urlo che né Renzi, né alcun altro dirigente ha cercato di frenare. Del resto, era stato lo stesso premier segretario a caricare i fedelissimi partendo lancia in resta contro chi “parla della ditta, ma usa il referendum come una rivincita per il congresso perso”.
La verità per Renzi è piuttosto amara: il sì di Gianni Cuperlo alla bozza di riforma dell’Italicum discussa con Guerini, Zanda, Rosato e Orfini ha aperto una crepa nella minoranza Pd, ma non ha fatto crollare il muro della diffidenza e — quindi — del No al referendum costituzionale. Non si sono convinti né D’Alema, né Bersani, e non si sono smossi neppure Speranza, Gotor, Zoggia, Stumpo e molti altri. Recuperare alle ragioni del Sì Cesare Damiano e alcuni altri esponenti minori è una buona notizia, ma non quanto Renzi aveva sperato cedendo sull’Italicum e aprendo la discussione sulle modifiche da fare dopo il voto.
Il clima, dentro e fuori il Pd, è incandescente. D’Alema pesantemente fischiato, i violenti scontri di sabato intorno alla Leopolda per la manifestazione non autorizzata del No sono i segnali di una tensione che cresce. Ma anche di un redde rationem in casa democratica che dopo il referendum diventerà inevitabile, qualunque ne sia l’esito.
Se vinceranno i No, come sembrano indicare la quasi totalità dei sondaggi, l’instabilità che coinvolgerà il governo si allargherà al partito. In entrambi i casi nel mirino finirà la leadership di Renzi, e si aprirà una fase congressuale all’ultimo sangue. Ancor più rapidamente si andrà allo scontro finale in caso di affermazione dei favorevoli alla riforma costituzionale targata Renzi-Boschi, perché il premier segretario avrà la forza per imporre l’allineamento a chi recalcitra, dentro o fuori, come gli chiedono i fedelissimi. Lecito supporre addirittura che in questo scenario in parecchi se ne potrebbero andare da soli. E il partito sarebbe sempre più renziano.
Per sovvertire un sentiment sfavorevole Renzi le sta provando davvero tutte. Sta percorrendo l’Italia per far passare il messaggio che la consultazione è un derby fra passato e futuro. E cerca di accreditare il suo come un governo concreto, un governo del fare, in grado di gestire con lungimiranza emergenze come il terremoto, disegnando insieme ricostruzione e prevenzione antisismica.
Per un momento nel corso della settimana appena trascorsa l’ipotesi del rinvio del voto è stata più di una boutade. Lo si è capito quando da idea “personale” di un amico di Mattarella, Pierluigi Castagnetti (ex segretario Ppi), è diventata materia di confronto per il ministro dell’Interno Alfano.
Ma nessuno fra le file delle opposizioni ha raccolto, probabilmente perché nessuno si è fidato. E ormai — a meno di colpi di scena giudiziari davvero clamorosi — la macchina del voto è lanciata, dal momento che tra pochi giorni cominceranno a votare gli italiani all’estero, che stanno per ricevere i plichi per esprimersi per corrispondenza.
Archiviata l’ipotesi del rinvio del voto, per Renzi è arrivato il momento di gettarsi anima e corpo nella campagna elettorale. In preparazione c’è un vorticoso tour della Penisola. E tutto lascia intendere che i toni si alzeranno ancora, perché il premier non ha scelta e per vincere deve urlare per spingere più gente possibile ai seggi, unica sua possibilità di vittoria. Purtroppo è facile prevedere che gli appelli di Mattarella a contenere i toni a un livello civile sono destinati a cadere nel vuoto. “E’ necessario, nell’avvicinarsi al giorno del referendum, e sarà necessario, dopo il suo risultato, il contributo di tutti, sereno e vicendevolmente rispettoso”, aveva detto il presidente della Repubblica il 12 ottobre a Torino, parlando al congresso dell’Anci. I suoi timori sono sulla gestione del dopo referendum, e ovviamente da mesi al Quirinale si prepara lo scenario peggiore dal punto di vista istituzionale, e cioè che il corpo elettorale bocci la riforma. L’incontro con Berlusconi del 27 ottobre s’inserisce senza dubbio alcuno in questo contesto.
Secondo gran parte degli osservatori, il capo dello Stato pare intenzionato a offrire al premier una chance anche in caso di sconfitta, con un reincarico, o un rinvio del governo alle Camere, sia perché si tratta del leader del partito che più pesa in parlamento, sia per l’assenza di reali alternative in grado di coagulare una maggioranza. Certo, il rischio è che Renzi si bruci troppi ponti alle spalle, e allora ricomporre il puzzle diventerebbe dannatamente difficile. Ma Renzi è convinto di riuscire a sovvertire tutti i pronostici, in un pericoloso gioco di uno contro tutti. Se ci dovesse riuscire avrebbe una lunga lista di conti da salvare. Rien ne va plus.