Non è facile ipotizzare come potranno funzionare le istituzioni se passa la riforma costituzionale Renzi-Boschi; certamente non funzionerà come uno schema matematico — come sembra ritenere, invece, D’Alimonte (“Scelta di garanzia che bilancia il maggioritario”, Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2016, pag. 14) e per questa ragione non appaiono rassicuranti le risposte date dai sostenitori della riforma alle preoccupazioni espresse sul versante dell’elezione del Presidente della Repubblica e delle future possibili revisioni costituzionali.
Ipotizziamo che vi sia una corrispondenza tra la maggioranza della Camera dei deputati, che consterebbe di ben 340 seggi, e quella del Senato, dove — proiettando l’attuale composizione dei Consigli regionali — vi sarebbero almeno 60 senatori del medesimo partito (al momento il Pd). Nell’ipotesi in cui dovesse esservi una totale dissonanza, che potremmo definire di “coabitazione”, evidentemente decisioni di questa importanza dovrebbero essere sempre mediate e, se le parti non riescono a collaborare, il sistema, ancorché semplificato, potrebbe bloccarsi lo stesso, persino nelle procedure legislative monocamerali, in cui il Senato avrebbe solo un potere di richiamo.
Vediamo distintamente i due temi: elezione del Presidente della Repubblica e potere di revisione costituzionale.
1. Quanto al primo, matematicamente non è sufficiente la maggioranza assoluta delle due Camere che insieme costituirebbero il collegio elettorale. Infatti, 340 deputati più 60 senatori formerebbero una base elettorale di 400 su 730, mentre per eleggere il Capo dello Stato sarebbero necessari, per i primi tre scrutini, la maggioranza di due terzi dell’assemblea, dal quarto scrutinio sarebbe sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea e, dal settimo scrutinio, è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti.
I sostenitori della riforma sostengono di avere modificato l’art. 83 della Costituzione, che prevedeva, dopo il terzo scrutinio, solo la maggioranza assoluta, proprio per evitare che fosse una sola parte a eleggere il Presidente della Repubblica. Infatti, la maggioranza dei due terzi sarebbe pari a 487 voti, quella dei tre quinti a 438, entrambe sopra i 400 voti posseduti dall’ipotetico partito più forte. Pur calcolando qualche assenza al momento del voto e facendo riferimento alla maggioranza dei tre quinti dei votanti, come sarebbe previsto dal settimo scrutinio in poi, ci troveremmo di fronte ad oscillazioni minime. Infatti, all’elezione del Presidente della Repubblica ha preso parte, in genere, una quota di grandi elettori tra il 99% e il 96% degli aventi diritto al voto, per cui l’oscillazione della prescritta maggioranza sarebbe tra 434 e 420 voti, comunque, anche se di poco, superiori agli ipotetici 400 voti del blocco di maggioranza.
2. All’opposto, sempre se nelle due Camere vi è assonanza, i 340 deputati e i 60 senatori sarebbero ampiamente sufficienti per l’approvazione di qualsivoglia modifica della Costituzione, anche se con la maggioranza assoluta sarebbe pur sempre possibile il referendum confermativo, il cui effetto lacerante stiamo provando proprio in questi giorni. Di conseguenza, la revisione costituzionale — salve serie opposizioni interne al partito di maggioranza — sarebbe alla mercé della maggioranza di turno, mentre il Capo dello Stato avrebbe bisogno di un minimo di supporto da parte di una opposizione.
Tuttavia, elezione del Presidente della Repubblica e revisione costituzionale ci inducono a considerare che lo schema matematico è ampiamente insufficiente a comprendere il sistema politico-istituzionale. Questo, infatti, funziona con regole affatto diverse dalla matematica: non che questa sia inutile, ma non definisce di per sé rilevanti comportamenti politici.
Qui occorre considerare che il leader politico che vince le elezioni — e che ottiene, matematicamente e grazie al premio, 340 seggi all’interno della Camera dei deputati — non è politicamente forte, perché avrebbe un margine di soli 24 voti e sarebbe, perciò, sempre in balia di qualche gruppetto interno al suo stesso partito.
Per via della maggioranza assoluta creata artificialmente, il sistema elettorale maggioritario con il premio dà vita a una forza politica di maggioranza che è naturalmente fragile, rispetto a partiti ideologici forti e compatti che, semmai, sono chiamati a coalizzarsi.
Di conseguenza, chiunque vinca le elezioni politiche, con il sistema previsto dall’attuale legge elettorale, avrà necessità — nonostante i 340 seggi — di convogliare nella maggioranza dei parlamentari appartenenti a partiti minori, scambiando con questi, com’è naturale che sia, prebende e posizioni. Quest’operazione, che coinvolgerà — secondo una stima credibile — all’incirca tra 50 e 65 deputati, sarà necessaria ed è stata ventilata nelle aule parlamentari già in questi giorni (dove i deputati in questa posizione sarebbero circa 90 e i senatori circa 65).
Il leader con i suoi “eletti” e i suoi “accoliti”, procurati grazie a quello che può promettere e concretamente elargire, disporrà tranquillamente — tranne in caso di crisi di proporzioni ampie — di un supporto tale da consentirgli di eleggere in proprio il Presidente della Repubblica e di cambiare a piacere la Costituzione, senza la preoccupazione di eventuale gruppetti dissidenti, anche perché gli “accoliti” saranno sempre più fedeli degli “eletti”.
3. Ora, proprio le due vicende indicate, considerate fuori dallo schema matematico e inserite nel contesto del sistema politico istituzionale concreto, ci dovrebbero indurre a proporre cambiamenti diversi da quelli previsti dalla riforma.
In primo luogo, sarebbe auspicabile una modifica dell’art. 138 della Costituzione, eliminando il procedimento di revisione costituzionale a maggioranza assoluta ed eventuale referendum; lasciando la previsione che la Costituzione può essere modificata solo a maggioranza dei due terzi in ciascuna Camera, come del resto è in Germania (art. 79 GG). Obbligando la maggioranza e l’opposizione a convergere sul medesimo testo costituzionale, si otterrebbe il vantaggio di mantenere il significato della Costituzione come patto condiviso di più parti tra loro diverse, come — in fondo — fu nel caso della Carta del 1947, cui contribuirono le tre diverse culture dell’Assemblea Costituente, la liberale, la cattolica e la socialcomunista. Per di più sarebbero escluse le esasperazioni divisive cui stiamo assistendo con il referendum in questi giorni. Nella peggiore delle ipotesi, di non raggiungimento dell’accordo dei due terzi, la Costituzione non sarebbe modificata, ma non sarebbe affatto un problema, perché dalla Costituzione dipende la “virtù” della Repubblica e non la bassa cucina governativa.
Quanto all’elezione del Capo dello Stato, l’ipotesi di prevedere solo la maggioranza dei due terzi, anche se risultasse adeguata al principio che il Capo dello Stato rappresenta l'”Unità nazionale”, apparirebbe di certo troppo stretta, con il pericolo di estenuanti ripetute sedute del Parlamento in seduta comune, senza raggiungere l’elezione del Presidente della Repubblica.
Prudenza avrebbe voluto, perciò, che la revisione costituzionale avesse previsto, per l’elezione del Presidente della Repubblica, una integrazione del collegio elettorale numericamente significativa, sì da equilibrare l’elezione del Capo dello Stato e di dare un significato più sostanziale al termine “Repubblica”, come insieme di popolo e istituzioni territoriali. Un po’ come accade in Germania, dove la ridotta composizione del Bundesrat è integrata nell’Assemblea federale, al momento dell’elezione del Presidente della Federazione, con un numero di componenti eguale a quello dei membri del Bundestag, eletti con metodo proporzionale dalle assemblee elettive dei Länder (art. 54, comma 3, GG).
Le regole costituzionali non devono impedire alla maggioranza di decidere, perché questa è la democrazia. Tuttavia, qualora la maggioranza istituzionale non si rispecchia nella maggioranza degli elettori è necessario circondare di particolari cautele le garanzie costituzionali e gli organi di garanzia del sistema istituzionale e questo la riforma Renzi-Boschi non lo fa o, almeno, non in misura convincente.