Nei momenti di difficoltà e di confusione — e pare innegabile che ci troviamo in uno di questi — è buona regola appoggiarsi sulle certezze di cui si dispone.

Con il referendum del 4 dicembre il popolo italiano, per la seconda volta in un decennio (la prima fu nel giugno 2006), ha rifiutato la pretesa dei Governi in carica, e delle loro (strette) maggioranze parlamentari, di apportare stravolgimenti alla Carta costituzionale, modificandone quasi per intero la Parte II, con inevitabili, ancorché implicite, ricadute anche sulla Parte I e sui Principi fondamentali e dunque, in una parola, sul testo nel suo insieme.



Si parta, allora, possibilmente con convinzione, dalla Costituzione che (ancora) abbiamo, dalla forma di governo parlamentare che delinea e dal complessivo funzionamento delle istituzioni che in essa si prevede.

Rispetto a ciò, la logica suggerirebbe che il sistema elettorale per Camera e Senato sia un elemento servente. Anche in questo senso, del resto, si spiega quanto ha ribadito in più occasioni la giurisprudenza costituzionale (da ultimo, nella ben nota sentenza n. 1/2014), vale a dire che non c’è un modello di sistema elettorale imposto, in quanto la Carta costituzionale lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico. Fatta, però, salva la circostanza che ogni sistema elettorale, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è tuttavia esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole.



Sarebbe allora bene, in questa prospettiva, provare ad abbandonare l’anomalia del sistema italiano, che della normativa elettorale tende spesso a fare il fulcro del funzionamento delle istituzioni. Il connubio Italicum/Riforma Renzi-Boschi, al riguardo, distorceva pesantemente, ancora una volta, i termini corretti del problema.

Per abbandonare tale anomalia sarebbe utile tornare a una vecchia regola di buon senso, che risulta anche consacrata nel “Codice di buona condotta in materia elettorale” elaborato nei primi anni duemila in seno al Consiglio d’Europa. Vale a dire che la stabilità del diritto è un elemento importante per la credibilità di un processo elettorale democratico. Che il ricorrente cambiamento delle regole in materia elettorale può disorientare l’elettore e portarlo a pensare, a torto o a ragione, che il diritto elettorale sia uno strumento che coloro che esercitano il potere manovrano a proprio favore. Che sia massimamente da evitare che la revisione di tali regole intervenga, si legge testualmente, “poco prima dello scrutinio (meno di un anno)”.



Come è facile osservare, l’azzardo del Governo dimissionario e della sua maggioranza parlamentare — con l’approvazione della sola nuova legge per la Camera (maggio 2015), il rinvio della sua applicabilità (luglio 2016), la dichiarata disponibilità a rivederla, l’intimo collegamento con la revisione costituzionale (poi bocciata), la scelta di aprire la crisi di governo (poche ore dopo aver teoricamente rinsaldato il legame fiduciario con l’ennesima questione di fiducia!) — pone ora il Paese nella necessità/opportunità di approvare una o entrambe le leggi elettorali a circa un anno dalla fine naturale della legislatura, sempre ammesso che vi si arrivi. 

E appaiono singolari, in questa ottica, le affermazioni del Presidente del Consiglio a ridosso dell’esito referendario, poco dopo la mezzanotte del 4 dicembre: “Questo voto consegna ai leader del fronte del No oneri e onori insieme alla grande responsabilità di cominciare dalla proposta, credo innanzitutto dalla proposta delle regole, della legge elettorale”. Singolari non foss’altro perché, di solito, chi scommette e perde non cerca poi di far pagare qualcun altro, o non dovrebbe.

Nel quadro di incertezza determinato dalla crisi di governo, in presenza di sistemi elettorali al momento differenti tra i due rami del Parlamento e non si sa se e quanto destinati almeno a convergere, nell’attesa del giudizio della Consulta, tutte le formazioni politiche sono inevitabilmente più portate a scegliere sulla base della propria convenienza, assottigliandosi quel “velo di ignoranza” che invece faciliterebbe opzioni ispirate a maggiore obiettività e al miglior funzionamento delle istituzioni.

Ancora una osservazione, prima di concludere.

Una politica che non pare, diciamo, sempre all’altezza, sembra invece assai pronta a sollecitare dalla giurisprudenza costituzionale la soluzione ai problemi che essa non ha saputo risolvere e spesso, anzi, ha concorso a determinare. Molti commentatori non hanno potuto esimersi dal leggere un tono risentito nel comunicato stampa del 7 dicembre, con il quale, in relazione alla data scelta per l’udienza per la trattazione delle questioni relative alla legge elettorale (24 gennaio 2017), la Corte costituzionale si è vista costretta a precisare che essa opera “secondo le regole degli organi giurisdizionali” (e non, potremmo aggiungere, secondo i desiderata di questa o quella forza politica).

Pensiamo a cosa sarebbe potuto accadere con il giudizio preventivo di legittimità costituzionale che la riforma Renzi-Boschi avrebbe introdotto, su istanza delle minoranze parlamentari, sulle leggi elettorali prima della loro promulgazione. Un compito che avrebbe costretto la Corte a entrare, anche non volendo, ancor più nel vivo della contesa politica ed esponendola a facili accuse.

Forse qualche autocritica sarebbe da attendersi da parte di quanti hanno sostenuto con forza la bontà di quella soluzione nel nostro ordinamento e nell’attuale contesto. O è chiedere troppo?

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