C’è un’atmosfera depressa intorno a questo governo Gentiloni che stride con la voglia di rivincita del Palmerston di Rignano sull’Arno, l’ex premier Matteo Renzi. Il quale continua a convincere se stesso e i suoi più stretti collaboratori, il famoso “giglio magico”, che si “può ripartire dal 40 per cento”. E’ un discorso simile a quelli che vedono “la luce in fondo al tunnel” da anni rispetto alla crisi economica del 2007.



In realtà, la ministra Marianna Madia, quella che è inciampata sulla riforma della pubblica amministrazione, si domanda con ansia: “Che cosa penseranno gli italiani?” La neoministra Anna Finocchiaro, bellezza antica, intrigante e sorniona, cerca di defilarsi, sostenendo di essere una “new entry” improvvisata in questo esecutivo piuttosto esangue. L’altra neoministra, di pelo rosso fuoco anche se abbastanza stagionato, Valeria Fedeli, porta una “ventata” più sindacale che culturale nel mondo in subbuglio della scuola. L’unico fedele al suo ruolo è l’impareggiabile Angelino Alfano, il ministro degli Esteri più “sorprendente” di tutto il mondo occidentale, il Jacques Tati (cioè il signor Hulot) della diplomazia internazionale.



Paolo Gentiloni è veramente pacato e gentile, ma alla fine dà l’impressione, dopo la fiducia ottenuta al Senato anche questa volta in un’aula semivuota, e dopo aver ripetuto che andrà avanti “fino a quando avrà la fiducia”, di non essere un “inguaribile ottimista”, ma quasi di guardare con buona volontà, ma anche con un relativo distacco, al ruolo a cui è stato chiamato dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

A ben vedere quindi c’è uno scarto evidente di entusiasmo tra la pacatezza di Gentiloni e dei suoi ministri e la voglia di rivincita di Matteo Renzi. L’attuale presidente del Consiglio ha la preoccupazione di fare passi avanti significativi portando in porto una nuova legge elettorale, qualche riforma che è quasi compiuta, schivando sconquassi economici o di carattere internazionale. Il “vecchio” leader, battuto al referendum del 4 dicembre, sembra invece animato da un attivismo che si traduce in camper prenotati e giri per l’Italia a tutto spiano, in attesa della partita finale nel suo partito, dove si affronteranno, a questo punto, gli intransigenti renziani e i possibilisti di ogni alleanza cosiddetta democratica. Sarà uno spettacolo indimenticabile.



Ma in tutti, dopo questo risultato referendario, c’è una consapevolezza che solo i “media di regime e quelli di opposizione lunare”, più gli stessi protagonisti politici, non vogliono ammettere chiaramente, ma che conoscono con lucidità: la famosa seconda repubblica, quella che Bettino Craxi definiva “E’ come l’araba fenice, tutti sanno dov’è ma nessun lo dice”, è letteralmente franata e non si sa da dove ricominciare: dalla presunta “terza” o da una riedizione aggiornata della “prima”, magari con proporzionale e coalizioni ?

Il fatto è che tutti i presupposti della cosiddetta seconda repubblica sono franati sotto una valanga di contraddizioni e disillusioni. E’ andato completamente in frantumi il leaderismo, sia nell’interpretazione di Silvio Berlusconi, sia in quella di Romano Prodi.  

E via via fino all’ultima speranza di battere il cosiddetto populismo travestito di antipolitica, prima con il “tecnico”, poi con la riesumazione di un giovane democristiano e infine con la speranza giovanile interpretata da Matteo Renzi. La scelta di Gentiloni sembra proprio il prototipo dell’antileaderismo.

Il Paese, nel frattempo, ha sopportato tutto e di più all’ombra di un’infinita crisi economica, una perenne incertezza politica disertando lentamente le urne e arrivando alla fine a votare con un 70 per cento di partecipazione, per mandare tutti quanti “a quel paese”. Il vero significato del No del 4 dicembre. Ogni gioco ha il suo metro di punteggio e valutazione. Paragonare il risultato di un referendum a quello di elezioni politiche è un’illusione da dilettanti allo sbaraglio.

In questo modo è arrivata alla fine la conferma che si è completamente spappolato il mitico bipolarismo, su cui si promettevano paragoni avventati con le altre democrazie occidentali e su cui si sono costruiti progetti di legge elettorale. Lasciamo stare lo spettacolo penoso di 23 gruppi, piccoli e grandi, che si presentano alle consultazioni, ma guardiamo almeno con realismo al tripolarismo, con varianti sul centrodestra e a qualche piccolo gruppo che sta diventando strategico nelle maggioranze, come il Nuovo centro destra e i “verdiniani”. Senza contare una consistente presenza inquietante della nuova “predicazione” leghista in salsa lepenista.

Inoltre, dopo la ventata della “casta”, creata a tavolino per dare fiato a editori che non vendono più copie di libri e di giornali, è nato il Movimento 5 Stelle, che ha scompaginato i piani dello scontro a due e del “nemico da battere”. Ormai il gioco si sta facendo a schema libero e le coalizioni sono ritornate, come si diceva, di grandissima attualità, quasi indispensabili per la famosa governabilità e stabilità.

Infine, rispetto alle scelte dell’opinione pubblica, è emersa la completa inutilità dei media, sia cartacei che televisivi. Completa inutilità nella comprensione della realtà sociale, com’era già avvenuto durante il referendum sulla Brexit e sull’elezione in Usa di Donald Trump, ma anche nel potere di convinzione che esercitavano un tempo. Si può dire che oggi, di fronte alle “sentenze mediatiche”, gli elettori votano al contrario, quasi per dispetto.

Di fronte a un panorama politico del genere, il governo di Paolo Gentiloni, sembra avere il fiato veramente corto e l’unica speranza che si può coltivare in questo momento è che, a partire dal Consiglio europeo di oggi, si ammorbidiscano i toni in Europa, si risolva il problema finanziario della banche e non si vada incontro a qualche spiacevole appuntamento di carattere internazionale. 

Ormai per l’Italia è arrivato l’appuntamento con un chiarimento politico che non è più procrastinabile. I numeri di Pil, disoccupazione, debito, competitività sono spietati e obbligano alla sincerità. Il Paese si è impoverito e rischia un nuovo “saccheggio” da parte di cosiddetti partner europei e non. Di fronte alla scalata di Vivendi su Mediaset è comparsa persino qualche nostalgia della tanto “screditata”, in altri tempi, Mediobanca di Cuccia e Maranghi. C’è da avere la faccia come il bronzo.

Sarebbe il caso di dirlo senza reticenze e di chiamare tutti a una presa di coscienza responsabile.