Le interpretazioni sull’affaire Vivendi sono “millanta che tutta notte canta”. C’è chi pensa all’assalto finale dei francesi contro le ultime ricchezze italiane; c’è chi parla di sceneggiata napoletana di carattere sopraffino; c’ è chi evoca scenari di contrasti dinastico-familiari; chi infine si appella al classico feuilleton che rievoca i classici televisivi (tanto per stare in tema) di “Dallas” e “Dinasty”. Non c’è bisogno di un Luchino Visconti come regista, evocando I Buddenbrook o la Recherche. In questo caso basta un routinier di televisione generalista, con la cultura del vecchio Grand Hotel dell’immediato dopoguerra italiano.



Tutte le ipotesi e le interpretazioni elencate hanno una parte di verità in questa scalata di Vivendi a Mediaset, del supposto scontro tra il francese Vincent Bolloré, di antica famiglia bretone, e il sempre rampante Silvio Berlusconi, che ha meno storia alle spalle, ma possiede la furbizia di un venditore nato.

Sostenere che i francesi, e altri, siano all’attacco del “supermarket italiano” è una banalità, quasi la scoperta dell’acqua calda. Che cosa bisogna ricordare? L’olio Carapelli, l’Antica Gelateria del Corso e l’acqua minerale San Pellegrino, giusto per fare esempi, per stendere l’elenco infinito delle grandi svendite cominciate con il geniale presidente dell’Iri, Romano Prodi, e i governi del dopo-Tangentopoli?



Il fascino del capitale straniero contagiò all’inizio degli anni Novanta Mario Draghi, Romano Prodi, Nane Bazoli e tutti i “nuovisti” catapultati in politica per ripianare il bilancio dello Stato di fronte alla corruzione (che cresceva all’ombra delle partecipazioni statali) denunciata dai magistrati “lungimiranti” e nello stesso tempo per stare al passo con i tempi della globalizzazione incombente. Che importanza poteva avere difendere filiere industriali italiane di prim’ordine, “marchi” di grande prestigio e di eccellenza di fronte all’insegnamento e ai suggerimenti del nuovo capitalismo finanziario di stampo anglosassone?



C’era in più un regista da rendere innocuo: Mediobanca, l’unica banca d’affari di grande prestigio in Italia. Il suo presidente, Enrico Cuccia, era riuscito a fare “le nozze con i fichi secchi”, difendeva quello che era possibile difendere di un “capitalismo straccione”, “senza capitali”, attraverso alleanze strategiche europee con realtà importanti. Si pensi solamente alle Generali e al patto tra Mediobanca e Maison Lazard di André Meyer. Cuccia sconsigliava o addirittura ostacolava le avventure straniere di alcuni nostri “capitani di sventura”. Si pensi all’affare Suez di De Benedetti e a quello Continental di Pirelli.

C’è da aggiungere che tra Cuccia e Berlusconi non c’era né amore né simpatia. Il Cavaliere appariva ai grandi soci di Mediobanca come un parvenu e Cuccia abbozzava. In più, il “grande vecchio” non credeva alle potenzialità dell’impresa televisiva. Un errore, anche grave.

Il gruppo Berlusconi, che era stato spalleggiato da una parte consistente del centrosinistra (non solo da Craxi, secondo le consuete leggende metropolitane), superò a metà degli anni Novanta una grave crisi grazie a banchieri come Cesare Geronzi e Luigi Fausti, appoggiandosi pure a Morgan Stanley. Alla fine, quella doveva considerarsi una partita chiusa. 

Mentre Cuccia stava morendo e Mediobanca veniva lentamente emarginata dai grandi affari italiani, arrivarono nell’allora via Filodrammatrici, con Vincenzo Maranghi al comando, tanti “vecchi” amici della Maison Lazard, portati da Antoine Bernheim. Il principale di questo gruppo era Vincent Bolloré, che aveva con sé un grande esperto di finanza, televisione e cinema come Tarak Ben Ammar. Il blocco di comando della nuova Mediobanca si appoggiava a questo punto sui francesi, sullo spagnolo Botin, su Fininvest finalmente sdoganata nel “salotto buono” e sotto la direzione di Maranghi.

Arriva di colpo un momento drammatico a livello planetario. Il mondo occidentale conosce la tragedia delle Torri Gemelle e dopo sei mesi il capitalismo finanziario imbocca, quasi meccanicamente, la strada dei derivati, che Maranghi, autentica “mosca bianca”, rifiuta categoricamente. In Mediobanca scoppia il pandemonio e alla fine Maranghi, dopo una battaglia durissima, viene messo in minoranza dai “McKinsey-boys” di Alessandro Profumo e nello stesso tempo viene abbandonato dai francesi e dal gruppo Berlusconi. Il giorno in cui si dimise, al mattino, secondo alcune voci, Maranghi era in visita ad Arcore.

La sostanza di tutta questa storia è che, alla fine, il ruolo di Mediobanca viene completamente esautorato. Non c’è più nessun “regista” o “guardiano” del capitalismo italiano e questo è l’atto finale della svendita del Paese, mentre intanto il turbo-capitalismo al derivato corre verso la crisi del 2007, quella che non è stata ancora risolta.

Tutto questo è il peccato epocale dell’Italia post-Tangentopoli (che coincidenza!), che un giorno la storia svelerà in tutta la sua ampiezza. Quindi lo sbilanciamento a favore dei francesi di una parte rilevante dell’industria italiana (di ogni tipo), è figlio di questa scelta e non si è cercato neppure di contenerlo entro limiti accettabili. E pensare che i francesi, qualche anno fa, gridarono allo scandalo per una scalata allo “strategico” yogurt Danone!

Lo sbilanciamento e la vittoria francese, quasi una sorta di colonizzazione, sta nelle percentuali. Vivendi di Bolloré ha oltre il 23 per cento di Telecom (strategico, no? Non se ne era accorto nessuno?). Poi c’è la grande realtà di Generali, che non c’è bisogno di associarla ad Axa, perché i francesi controllano già la grande compagnia di assicurazione triestina attraverso Mediobanca, dove il solo Bolloré si è preso l’8 per cento. I resti del capitalismo italiano, con un governo tanto debole e sderenato da referendum passati e futuri, diventano una preda semplice, non c’è bisogno di guardare all’andamento dei mercati e al mitico spread.

Ora, in più, c’è il 20 per cento di Vivendi nel capitale di Mediaset, dove il “Berlusca” con la sua famiglia ha il 37,7 per cento. Facciamoci alcune domande, dopo aver analizzato la “vittoria” storica dei francesi sul capitalismo italiano.

Che cosa ha in mente Bolloré? Con il 20 per cento, la sua posizione, per legge, è diventata strategica e quindi può determinare scelte anche decisive, come ad esempio sinergie importanti con Telecom. Conviene al raider bretone andare sino al 30 per cento del capitale per arrivare all’obbligo dell’Opa e a uno scontro sanguinoso con Berlusconi?

Qui arrivano tutti i dubbi del feuilleton o della sceneggiata di cui si parlava all’inizio. Tarak Ben Ammar può andare in televisione e raccontare a Giovanni Minoli tutti i suoi dispiaceri per la “lite” tra Bolloré e Berlusconi, ma può convincere solamente il vasto parco buoi della Borsa milanese.

Perché non pensare invece che il “grande venditore”, ormai ottantenne, non pensi a capitalizzare, nell’interesse anche della numerosa prole, vendendo una parte adesso di azienda, facendo un’alleanza strategica e una finta battaglia, non fidandosi troppo della capacità dei due figli più inseriti nell’azienda?

C’è qualche analista impietoso che spiega: “Marina e Pier Silvio sono due bravissimi ragazzi, preparati, studiosi e intelligenti. Peccato che, morto Silvio e poi anche l’intramontabile Fedele Confalonieri, sarebbero spazzati via nel giro di un quarto d’ora. Come è comodo simulare una bella lite! Bolloré deve pagare 2 miliardi per violazioni contrattuali? Scommetterei che alla fine sborserà 500 milioni, tanto quanto Berlusconi ha dovuto dare a De Benedetti sull’affare Mondadori. E poi arriverà Tarak, con lacrime cattolico-musulmane, a pregare per una pace e una futura collaborazione tra i suoi due amici”.

Fantasie? Può darsi, ma intanto un grande rivale è stato allontanato. Come potrebbe intervenire in questo momento su Mediaset il vecchio Rupert Murdoch? Molto complicato. Meglio una pace tra Vivendi e Fininvest, meglio una tregua tra Bolloré e Berlusconi, piuttosto che affrontare l’attacco di Murdoch. E poi c’è l’immagine del Cavaliere, che esce rafforzata. Se persino lo Stato riconosce che Mediaset è una “realtà italiana” strategica, Berlusconi diventa un patriota. Se venisse scagionato dalla Corte europea e reintegrato come senatore, sarebbe un patriota riconosciuto e non solo in patria.

L’ultima farsa della crisi italiana, anche a livello di svendita, potrebbe essere racchiusa in un incontro non immaginario tra Vincent e Silvio, con quest’ultimo che dice: “Tra qualche anno avrai tutto. Lasciami finire la mia avvenuta alla grande. Al posto del Biscione potrai mettere l’effigie di Carlo VIII. In fondo si tratta solo di un ritorno dopo cinquecento anni”.