Vista dal Quirinale il panorama della politica italiana post-crisi di governo appare sconfortante come non mai. Tre poli in crisi profonda, con la variabile giudiziaria che non può far altro che complicare ancor di più la situazione. E a pochi mesi (da quattro a tredici massimo) dalle elezioni una simile situazione non può che far accendere l’allarme rosso sulla governabilità prossima ventura.



Nei giorni successivi al referendum Mattarella si è mosso con sagacia e fermezza. Una gestione della crisi impeccabile e incredibilmente veloce, vista la complessità della matassa da sbrogliare. Soprattutto un rigore nel seguire la lettera e lo spirito della Costituzione che ha suscitato un generale apprezzamento. Ma tutto da solo non può fare.



Se lo sguardo comincia dal Pd, partito dalle cui fila Mattarella proviene, la scena è dominata dall’ira di un Renzi ferito, che Mattarella ha dovuto tenere a bada la mattina seguente al referendum, quando si è trovato di fronte un politico sconfitto e deciso a mollare tutto e subito. Il capo dello Stato glielo ha impedito, pretendendo prima il varo della legge di bilancio.

Nonostante le intemperanze caratteriali (che per Mattarella sono molto difficili da capire), è da Renzi che bisogna ripartire, anche se una lunga fase di braccio di ferro dentro il partito in vista delle primarie non promette nulla di buono. Colpisce la durezza delle parole che il presidente del Senato Pietro Grasso ha usato venerdì nell’incontro natalizio con la stampa parlamentare, quando si è scagliato contro un dibattito politico che “non può essere ridotto all’arena per lo scontro di personalità ipertrofiche”. Parole della seconda carica dello Stato, che però non devono essere troppo distanti dal pensiero della prima, citata ripetutamente in quel discorso. 



Il richiamo costante di Mattarella alla collaborazione e al confronto politico improntato al rispetto fra i protagonisti vale anche per la fase delicata che il Pd si appresta a vivere: il Quirinale non vedrebbe certo di buon occhio epurazioni, espulsioni e rese dei conti sanguinose. E a far piovere sul bagnato contribuisce l’indagine che ha toccato il sindaco di Milano Beppe Sala, sin qui la più riuscita espressione amministrativa del renzismo. Per di più la scelta dell’autosospensione non può essere certo apprezzata, essendo di fatto fuori dalle regole, che non prevedono questo istituto.

Guai giudiziari (l’arresto di Raffaele Marra a Roma) sono anche quelli che rischiano di limitare le prospettive della più accreditata alternativa al Pd, cioè il Movimento 5 Stelle. Si badi: a Roma e Milano siamo di fronte a fatti isolati e precedenti all’assunzione di responsabilità amministrative, quindi nessun “complotto” delle toghe. Nella capitale, però, il rischio è dell’implosione nell’amministrazione che doveva costituire la consacrazione della capacita di governo dei grillini. Nei sondaggi questa difficoltà ancora non si vede, ma difficilmente i romani voterebbero in maniera quasi plebiscitaria oggi un 5 Stelle in un eventuale ballottaggio. E dire che dalla vittoria di Virginia Raggi sono passati soltanto sei mesi. 

Parma, Livorno, Comacchio, Gela, Quarto, e adesso Roma: il rosario dei disastri amministrativi a 5 stelle comincia a diventare inquietante, in vista di un possibile approdo al governo del paese. 

E certo non mostra particolari segnali di buona salute il terzo possibile contendente, il centrodestra. Senza un leader, con l’ottantenne Berlusconi che si ostina a rimanere in campo nella speranza di una sentenza europea che lo riabiliti, l’area moderata sembra dibattersi in scontri senza capo né coda fra i troppi galletti a cantare, Salvini, Meloni, Toti, Fitto, Parisi e quant’altro.

Visto il quadro fosco che gli si para davanti, diventa facile capire per quale ragione Mattarella preferirebbe arrivare alla scadenza naturale della legislatura, a febbraio 2018: una politica in profonda crisi avrebbe bisogno di tempo per riorganizzarsi. Dalle parti del Quirinale alberga però la consapevolezza che difficilmente questo auspicio potrà realizzarsi. 

Il timing che dal Quirinale è stato imposto è comunque rigoroso. Comincia con l’attesa della pronuncia della Corte costituzionale sull’Italicum, cui deve seguire la rapida riscrittura delle regole elettorali, in maniera il più possibile condivisa e — di conseguenza — sulla base di quanto i giudici della Consulta scriveranno nella loro sentenza. In parallelo ci sono i grandi appuntamenti internazionali, a fine marzo il vertice europeo di Roma, a fine maggio il G7 di Taormina. 

La seconda metà di giugno rappresenta quindi l’orizzonte minimo di durata del governo Gentiloni, secondo il Quirinale. Chi vorrà accelerare i tempi per votare a inizio aprile (correndo una piccola finestra ci sarebbe), troverà nel capo dello Stato un coriaceo ostacolo da superare. Ma forse non basterà a far recuperare un minimo di credibilità e di equilibrio al nostro disastrato patrimonio politico.