Dopo le dimissioni di Renzi — dimissioni non dovute, né richieste, ma date per sparigliare rispetto al risultato del referendum costituzionale — un governo del Presidente della Repubblica era più che prevedibile: la maggioranza parlamentare era stata delegittimata dal voto popolare, l’intero parlamento era in una condizione precaria per essere il frutto di una legge elettorale dichiarata incostituzionale e, perciò, l’unico governo possibile poteva essere quello del Presidente della Repubblica.
Del resto, il presidente Mattarella giustamente aveva detto che il voto immediato non sarebbe stato possibile, per le urgenze, almeno tre, che attendevano il Paese: il terremoto, la questione delle banche, la manovra correttiva richiesta dalla Commissione europea. Il governo si sarebbe occupato di queste, mentre le forze politiche in Parlamento avrebbero dovuto in modo responsabile scrivere insieme la legge elettorale. Poteva essere l’occasione, dopo l’esito referendario, per legittimarsi reciprocamente, in vista della nuova legislatura. Questo, almeno, è sembrata essere la linea tracciata dal Presidente della Repubblica.
Con il passare delle ore, invece, il governo sembra avere smarrito la sua provenienza e avere acquisito un carattere diverso: quello di un governo messo lì a vivacchiare nell’attesa del ritorno del grande capo, il quale aspetta il congresso del Pd, da vincere, e poi le elezioni, per ritornare. I suoi fedeli in posti chiave e una maggioranza al Senato più limitata, in modo che sia possibile aprire la crisi in qualsivoglia momento. Anche la cacciata di Ala ha qualcosa di tattico.
In queste condizioni è stata messa in discussione la moral suasion del Presidente della Repubblica e l’opinione che gli italiani hanno dell’attuale governo è che esso appare essere eguale al precedente e per una parte persino peggiore del precedente. Non è un giudizio positivo, ma altamente negativo, per l’84 per cento degli italiani; e il pensiero di poter sovvertire — ad elezioni fatte — il giudizio degli italiani, con il ritorno di highlander, sembra essere una sfida pericolosa, non tanto per Renzi e per il Pd, quanto per il Paese.
L’Italia è la malata d’Europa e l’Europa è la malata del mondo. Le recenti notizie statunitensi sono che la ripresa si sta rafforzando considerevolmente, come la quasi parità euro/dollaro mostra, e con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca una nuova politica estera di collaborazione tra Usa e Russia si potrebbe instaurare a discapito dell’Europa, che stenta alla ripresa e che appare afflitta anche dalle questioni della sicurezza e dei migranti.
Tra le strategie volte a rafforzare l’Europa e l’euro quella più semplice da perseguire sembra essere legata alla fuoriuscita dell’Italia dalla moneta unica.
Già ai primi di novembre il sondaggio Sentix tra 1.039 investitori indicava per l’Italia il rischio di uscita dall’eurozona persino maggiore rispetto alla Grecia. Adesso molti osservatori stranieri, in particolare gli esperti economici tedeschi, stanno suggerendo al nostro Paese di pensare a un’uscita dall’euro per riprendere a crescere.
Il senso è evidente. L’Italia, nonostante il suo enorme debito, è un Paese grande e difficile da piegare, non è la Grecia; però l’Italia, per il suo enorme debito, è un paese che impedisce non solo a se stesso, ma anche all’Europa di riprendersi. Con l’uscita dall’euro dell’Italia si consentirebbe a Germania e Francia, con alcuni altri, tra cui anche la Spagna, di competere meglio con il dollaro e di avere una ripresa più solida. E l’Italia? Con l’uscita dall’euro si svaluterebbe il suo debito, ma i suoi asset migliori sarebbero acquisibili a un prezzo di fatto più economico. Molto più di quanto non sia accaduto in questi anni di crisi. Per i cittadini si aprirebbe un baratro: per i loro salari e le pensioni, così come per il lavoro e gli investimenti. Le famiglie e le imprese sarebbero trascinate in una condizione di maggiore precarietà.
Il problema è che la lotta per il potere con il ritorno di highlander potrebbe favorire questo disegno. È palese che Renzi è inviso a una sempre crescente maggioranza dell’opinione pubblica (provate a pensare all’eventuale risultato del referendum sul Jobs Act promosso dalla Cgil); può vincere il congresso del Pd — anche se, da alcune avvisaglie, potrebbe essere vero il contrario — ma in ogni caso questo successo farebbe implodere il partito, perché il sentimento diffuso è che la sua non sia una politica di sinistra, fondata sull’equità e la solidarietà.
A prescindere dalle vicende interne al Pd, comunque Renzi alle elezioni arriverà più debole e questo potrebbe favorire le forze che sposano l’idea dell’uscita dall’euro e persino dall’Unione europea.
Non è escluso peraltro che lo stesso Renzi, per imitazione, non attacchi a tal punto l’Unione europea da approdare o da favorire l’uscita dell’Italia.
L’esito referendario avrebbe dovuto ammaestrare la classe politica e chi ricopre compiti istituzionali, non spingere a rivincite immediate e a concepire nefasti scontri finali, come quello di highlander appunto.
Nel caso italiano, non ne rimarrà neppure uno.