Il voto referendario di domenica 4 dicembre sarà un voto al buio. I cittadini dovranno pronunciarsi su una riforma costituzionale le cui modalità di funzionamento non sono valutabili, non essendo compiutamente conoscibili. 

Perché “voto al buio”? Il rilievo non deriva solo dalla presa d’atto della capillare opera di disinformazione realizzata dal Governo (attestata clamorosamente dalla velina del portavoce del presidente del Consiglio, Filippo Sensi, svelata da Dagospia e mai smentita); né discende solamente da quella naturale incertezza che accompagna la messa in opera di ogni nuovo impianto costituzionale. 



Più ancora, esso scaturisce dalle gravi contraddizioni e dalle carenze strutturali insite nel nuovo modello bicamerale. I motivi d’irrazionalità rinvenibili nel testo, infatti, se in alcuni casi sono addirittura insanabili, in altri rinviano all’intervento risolutore di variabili pur sempre indipendenti e dalla dubbia efficacia, essendo condizionate dalle dinamiche della politica e dall’incertezza dell’attuale momento storico.



A titolo emblematico valgano alcuni fra gli esempi più eclatanti.

1. Il primo esempio concerne la questione del conseguimento degli obiettivi di rapidità dei processi decisionali e di stabilità dell’esecutivo, che il Governo ha assicurato essere garantiti dalla riforma Renzi-Boschi. Una tale garanzia, tuttavia, non è certa, essendo piuttosto subordinata alla permanenza del cosiddetto “combinato disposto” fra la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale. 

Il rilievo è confermato dallo stesso Roberto D’Alimonte, il politologo che insieme a Denis Verdini ha disegnato gli assi portanti dell’Italicum. Come ha ammesso il politologo sul Sole 24 Ore dello scorso 2 ottobre: “le due riforme sono strettamente connesse. Tanto connesse che vivranno o cadranno insieme. […] È la combinazione di Italicum e riforma costituzionale a creare le condizioni di un diverso modello di democrazia in cui stabilità e responsabilità del governo si combinano in modo equilibrato con la rappresentatività del parlamento. Non è un caso che chi critica la riforma costituzionale lo fa non solo per i suoi contenuti ma soprattutto per il suo collegamento con la riforma elettorale”. 



E tuttavia, proprio la prosecuzione di una tale combinazione è tutt’altro che scontata. La permanenza dell’Italicum è seriamente messa in discussione tanto dalla Consulta, quanto dallo stesso Matteo Renzi: l’una, chiamata a giudicarne i gravi motivi d’illegittimità variamente contestati; l’altro, interessato a favorirne la modifica, in modo da sopravvivere alla competizione elettorale con i 5 Stelle (pur avendone imposto l’approvazione parlamentare con il voto di fiducia). 

In altri termini, nel caso della sostituzione dell’Italicum con una legge elettorale priva del clamoroso premio maggioritario ora in discussione, permarrebbero comunque invariate, anche nel caso di approvazione della nuova riforma, quelle condizioni d’ingovernabilità e di lentezza decisionale oggi contestate con tanta veemenza dal Presidente del Consiglio. Occorre dunque chiedersi: tanto rumore per nulla? E, soprattutto, sulla base di quale legittimazione il Governo assicura agli inconsapevoli elettori quanto invece non è in grado di garantire? 

2. Il secondo esempio sull’irrazionalità della riforma riguarda la composizione del nuovo Senato. La questione non è solo quella già notoria dell’insanabile contrasto insito nel testo di revisione fra i due diversi modi di elezioni dei senatori-consiglieri — elezione indiretta da parte dei consigli regionali, ma “in conformità” (!) con le scelte degli elettori —. Più ancora, essa riguarda l’impossibilità strutturale della riforma di garantire il rispetto del principio di proporzionalità nella nomina dei consiglieri-senatori, vanamente assicurato dall’art. 57 del testo di revisione. 

Ancora una volta è Roberto D’Alimonte ad ammettere candidamente il tutto sul Sole 24 Ore dello scorso 24 novembre: “nel nuovo Senato ci saranno 8 regioni e due province autonome che avranno un solo consigliere regionale e un sindaco. Va da sé che in questi casi non sarà possibile assicurare una rappresentanza proporzionale. Il principio sarebbe violato nel caso che la maggioranza al governo nella regione si accaparrasse entrambi i seggi. Ma non sarebbe rispettato nemmeno se uno dei seggi fosse assegnato a uno dei partiti di opposizione”. 

Occorre dunque chiedersi: se il principio costituzionale della proporzionalità è destinato a essere inesorabilmente violato, le prossime leggi di attuazione saranno inevitabilmente illegittime? E come faranno le minoranze politiche e territoriali a essere rappresentate nel nuovo Senato? E quanto graverà il tutto sulla tenuta democratica del sistema?

3. Il terzo esempio sull’irrazionalità della riforma riguarda il funzionamento di un Senato composto da consiglieri regionali e da sindaci in tutt’altre faccende affaccendati. La questione dei cosiddetti senatori dopolavoristi è talmente plateale e insanabile, che gli stessi “esperti” del Pd appositamente incaricati di trovare una soluzione hanno dovuto prendere atto della relativa impossibilità. Nel documento finale essi hanno concluso, laconicamente, che i neosenatori si recheranno a Roma non più di due volte al mese e che, per il resto, parteciperanno alle attività del Senato via mail. In tal modo, tuttavia, quale sarà il destino della democrazia territoriale? Chi sarà il gran burattinaio telematico? E quali saranno le garanzie della tenuta dei principi di trasparenza e di responsabilità politica, supremi principi del costituzionalismo parlamentare?

Gli esempi rappresentati sono solo alcuni dei tanti a disposizione. Essi dimostrano come l’irrazionalità del nuovo sistema non solo interessa profili essenziali dell’impianto democratico, ma è pure destinata a permanere nel tempo. La riforma Renzi-Boschi, in tal senso, costituisce una sorta di “terra incognita” per il Paese. Presentando contraddizioni e carenze plateali e insanabili, nessuno è in grado di poter assicurare il corretto funzionamento del nuovo impianto. Ecco perché il voto referendario sarà un voto al buio; ai cittadini è impedito di conoscere in anticipo e compiutamente l’oggetto su cui sono chiamati a pronunciarsi. Ed ecco perché la campagna referendaria del Governo è stata indirizzata alla “pancia” piuttosto che alla “testa” degli elettori.  

Da tale punto di vista, la personalizzazione sfrenata del referendum da parte del presidente del Consiglio e la strategia plebiscitaria continuamente perseguita dal Governo non sono state casuali, ma coerenti e necessitate. Esse non sono derivate da un errore caratteriale di Matteo Renzi (come invece vuol fare credere Giorgio Napolitano), piuttosto sono dipese dal “vuoto costituzionale” di cui è affetta la riforma. Se il voto non può essere razionale, allora deve essere necessariamente emozionale. Ed è all’emozione che ha inteso fare presa la propaganda del Governo.

E tuttavia, nella deriva di una tale irrazionalità referendaria si consuma il tradimento delle garanzie democratiche dell’elettore (se il voto non può essere consapevole, non può essere nemmeno libero). Ed è in tale deriva che il Paese si è lacerato, attendendo vanamente il compimento di promesse mai realizzabili.

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