Volendo riassumere i temi più importanti di questa campagna referendaria, un posto di assoluto rilievo lo occupa la questione di metodo. La modifica costituzionale è infatti passata con i voti della sola maggioranza di governo e questo, sulla scorta dei risultati dei referendum 2001 e 2006, fa comprendere come ormai il danno più grave è stato fatto. Ogni maggioranza di governo immagina di potersi fare la sua costituzione. 



Meglio di me lo spiega Sergio Mattarella rivolgendosi il 12 marzo 2005 alla maggioranza ed al governo di allora: “Oggi, voi del governo e della maggioranza state facendo la ‘vostra’ Costituzione. L’avete preparata e la volete approvare voi, da soli, pensando soltanto alle vostre esigenze, alle vostre opinioni e ai rapporti interni”, diceva l’attuale capo dello Stato. E poi: “Ancora una volta emerge la concezione che è propria di questa maggioranza, secondo la quale chi vince le elezioni possiede le istituzioni, ne è il proprietario. Questo è un errore”. 



Oggi il governo riscrive 47 articoli della Carta su 139 senza coinvolgere l’opposizione. E senza scrivere nel quesito referendario le vere questioni su cui la maggioranza, frutto di una legge elettorale con un premio abnorme, avrà mano libera: dall’equilibrio tra i poteri alla dichiarazione di guerra, coprendole con domande del tipo “volete bene alla mamma?” ovvero volete ridurre i costi della politica? 

Nel merito molti sostenitori del No paventano un rischio per la democrazia, ma nessuno meglio di un sostenitore del Sì (!) come Luciano Violante ha chiarito perché. Il presidente emerito della Camera, dalle colonne de” ilsussidiario.net ” del 30 settembre 2015, così diceva:



Dall’intreccio tra riforma costituzionale e riforma elettorale nasce un regime che definirei semiparlamentare. Un regime privo dei difetti dell’assemblearismo, già fortemente temuto dai costituenti, ma che rischia di essere governato in pratica da un solo uomo alla testa di un solo partito. Bisognerà individuare nuovi equilibri tra le due Camere, tra queste e il Governo, tra tutti e il presidente della Repubblica“. 

Io rispetto certo il Sì di Violante, ma i problemi da lui individuati restano e nessuno ad oggi ha provveduto a risolverli, aggravando anzi la poca trasparenza del provvedimento con improbabili rimandi a futuribili modifiche di leggi ordinarie che dovrebbero far sparire difetti essenziali. Chi scrive non ritiene il governo Renzi peggiore di altri. Ma conosco la riforma. E voto No perché, appunto, ci siano regole che non ci facciano dipendere dagli interessi o dalle ideologie di chi governa. No. Senza alzare la voce.

Trovo singolare dover precisare che non voto No perché detesto o disistimo i miei avversari politici. Molti sono amici e tutti sono apprezzabili. Ma di questi tempi meglio essere chiari. Il disegno di legge costituzionale firmato dal ministro Maria Elena Boschi ha troppi limiti. 

1. Il Senato si sarebbe dovuto trasformare in una vera camera delle autonomie. Così non è. Al contrario diventa un luogo esautorato dalla trattativa Stato-Regioni che si muove in altro organismo non abolito, la Conferenza Stato-Regioni, non costituzionale e sotto influenza diretta del governo. 

Sarà costituito da senatori nominati con regole dubbie e, in particolare per i sindaci, in tutt’altre faccende affaccendati. Ci saranno cinque senatori nominati dal presidente della Repubblica: significa che, a Costituzione invariata rispetto ai poteri del Quirinale, la riforma genera un partito in parlamento, fuori dalle elezioni e magari a cavallo di legislature, in grado di condizionare non poco un senato dove rappresenta, caso inedito, una forza del 5 per cento.

2. L’iter di approvazione delle leggi risulta così complicato da somigliare alle grida manzoniane e, per ultima ratio, prevede l’accordo tra presidenti di Camera e Senato, che somiglia tanto al lancio della monetina quando nessuno prevale in una estenuante partita di calcio. 

3. La riforma prevede, poi, che i cordoni della borsa tornino allo Stato centrale in spregio del principio di sussidiarietà. Anche nel settore della sanità, cioè della quasi totalità del bilancio di una Regione. Con criteri vaghi si giustifica di tutto, anche che sia palazzo Chigi a scegliere i dirigenti sanitari da imporre persino alle Regioni governate da coalizioni di segno diverso da chi occupa pro tempore il governo. Questo significa che le Regioni virtuose avranno meno autonomia finanziaria, e con le tasse dei loro cittadini saranno mantenute le Regioni inefficienti. Al contrario, non sono stati intaccati i privilegi delle Regioni a statuto speciale, più costosi della spesa fuori controllo di alcune Regioni a statuto ordinario. Una scelta dettata dal fatto che senza i voti dei senatori delle Regioni “speciali” alla camera alta la riforma non sarebbe passata. 

4. Da un lato quindi un compromesso al ribasso, dall’altro regole del gioco fatte perché la cosiddetta democrazia decidente la spunti comunque rispetto a tutte le possibili istanze che partono dal basso, siano esse sostenute dalle formazioni intermedie piuttosto che dalle autonomie. Più stato e più oligarchia per tutti. 

5. Certo ci sono preoccupazioni che fanno il paio con speranze immotivate trattandosi di una riforma costituzionale. La pretesa che la nostra economia trovi un magico rilancio nelle pieghe del ddl Boschi è destinata ad infrangersi contro una considerazione di buon senso. Le economie che più di ogni altra crescono a pieno ritmo ed a due cifre sono per esempio Turchia e Cina. A quale delle due costituzioni vogliamo ispirarci? Quella sicuramente comunista della superpotenza transpacifica, o preferiamo l’ordinamento neo-ottomano di Erdogan? 

6. Ma soprattutto siamo sicuri che il problema, in un parlamento che da due decenni va avanti a decreti legge, sia la velocità di produzione delle stesse tenuto conto che siamo primatisti assoluti per numero ed estensione lineare di leggi varate? 

La verità è che non abbiamo da scegliere tra una mediocre riforma ed il rischio di fermare il paese, come suggerisce Romano Prodi. Ma da rimettere sul giusto binario una partita di calcio in cui qualcuno ha deciso che il calcio di rigore si può assegnare solo alla squadra di casa. Questo giustifica che la squadra ospite si rifiuti di partecipare al campionato. Infatti sia alla Camera che al Senato le opposizioni non hanno partecipato al voto finale, e il fatto che in precedenza parte di esse avessero dato concreta disponibilità a scrivere insieme il testo rivela che la logica che ha guidato la stesura e l’iter parlamentare della riforma è da padri prepotenti e non da padri costituenti. 

Nei dibattiti che ho sostenuto in questi mesi sempre ho posto ai miei interlocutori il problema del 5 dicembre. Come recuperare una visione comune che ci consenta di preservare il senso unitivo della nostra Costituzione? “Bisogna rinnovare”, “gli italiani non possono restare nella palude”. Sono frasi senza significato se non portano in dote la capacità di creare le condizioni di un destino condiviso. La domanda fondamentale, al di là del quesito referendario, è se dobbiamo continuare ad avere una repubblica parlamentare o affidarci a norme scoordinate che non configurano né una repubblica parlamentare né una repubblica presidenziale, ma una repubblica incerta che non può funzionare, pericoloso ibrido per la democrazia. 

Non riesco ad immaginare altro percorso per arrivare a questo risultato che indire una assemblea costituente vera, senza far pesare su chi è minoranza in quel momento il monito di Brenno: “Guai ai vinti”. Per farlo bisogna riconoscere che l’altro vale. Che non è l’Italia peggiore. Che siamo sulla stessa barca. E che abbiamo una meta che possiamo raggiungere solo se remiamo nella stessa direzione. 

Questa volta non è andata così. Non è la prima volta. Non è una tragedia. Ma fare insieme le regole del gioco resta la sola possibilità che abbiamo di non rassegnarci alla logica di un conflitto permanente, mai veramente dichiarato ma non per questo meno corrosivo. Altrimenti avremo un campo di calcio dove si gioca a rugby con le regole della pallacanestro. E non finirà bene.

Basti pensare alla contraddizione dell’articolo 64, in cui si prevede uno statuto delle opposizioni ma si stabilisce che a deciderlo sia la maggioranza semplice della Camera dei deputati, che, insisto nel ricordare, è la maggioranza che coincide con un solo partito, prodotto dal premio abnorme della legge elettorale che molti continuano a considerare già superata ma che ricordo a tutti essere per ora la sola norma, a differenza della modifica costituzionale, che è legge dello Stato. 

Ai tanti che dicono che la riforma ha dei “buchi” sanabili (dopo), voglio citare la frase che in uno dei dibattiti cui ho partecipato mi ha ricordato un pescatore di Civitanova. “Cosa mi farebbero se prendessi il largo con una barca piena di buchi, dicendo che li riparerei mentre sono in mare aperto?”