La formulazione del quesito referendario, che pure indulge ampiamente a finalità di propaganda, non fa cenno di uno dei punti che, nelle dichiarate intenzioni del Governo, dovrebbero maggiormente qualificare la riforma da esso proposta: la cosiddetta governabilità.

Una parola della quale si è fatto, negli ultimi trent’anni, un uso tale da sconfinare in abuso e che dovrebbe indicare il rafforzamento dei poteri del Governo per l’attuazione del programma politico sul quale ha avuto la fiducia. Si tratterebbe allora di correggere (o, come spesso piace dire, di razionalizzare) la forma di governo parlamentare, spostandone gli equilibri a vantaggio dell’Esecutivo.



In realtà, però, il testo della legge di revisione approvata dalle due Camere non dispone alcuna modifica sostanziale degli articoli concernenti il Governo, limitandosi agli aggiustamenti conseguenti alla concentrazione del rapporto fiduciario, a latere creditoris, in capo alla sola Camera dei deputati.

Ciò non ostante, può senz’altro affermarsi che la legge Renzi-Boschi attinge il risultato voluto, con modalità che, conformemente ad un costume italico, sono oblique ed indirette.



L’impianto riformatore determina, infatti, nel suo complesso, effetti di rafforzamento della posizione costituzionale del Governo.

Occorre anzitutto considerare che la restrizione del circuito fiduciario alla sola Camera dei deputati — la cui composizione, a legislazione elettorale vigente (cosiddetto Italicum), è ipotecata dal premio di maggioranza, che rinvigorisce il ruolo del cosiddetto candidato premier — può agevolare la saldatura tra questo ramo egemone del Parlamento ed il Governo, dando così vita ad un organismo extra ordinem (il gruppo di comando formatosi attorno al presidente del Consiglio dei ministri) in grado di esercitare influenza dominante sul Governo e sulla Camera.



L’esclusione del Senato dal rapporto di fiducia lo taglia fuori da ogni possibile interlocuzione sul programma di governo e, a causa della limitatezza delle sue competenze e della lacunosa articolazione delle modalità di espletamento, ne impedisce la partecipazione alla formazione e all’esecuzione dell’indirizzo politico, salvo per ciò che concerne le materie di legislazione bicamerale, ma in ogni caso senza poterne far derivare conseguenze politiche, tantomeno in chiave di sfiducia.

Per ovvia conseguenza ciò comporta un depotenziamento della funzione di controllo finora spettante ad entrambe le Assemblee rappresentative, come del resto dimostra la riformulazione dell’art. 82 Cost., che confina le inchieste senatoriali alle “materie di pubblico interesse concernenti le autonomie territoriali”.

Un significativo punto di emersione di quanto si viene dicendo si trova nell’art. 72 ultimo comma che, nella versione riformata — con un fraseggio perentorio — attribuisce al Governo il potere di chiedere precettivamente alle Camere di deliberare l’iscrizione dei disegni di legge che esso consideri come essenziali per l’attuazione del programma “con priorità all’ordine del giorno”, affinché sia sottoposto a pronuncia definitiva entro settanta giorni da tale deliberazione. 

Si tratta, con ogni evidenza, di una pesante ingerenza dell’Esecutivo in quell’essenziale aspetto dell’autonomia dell’ormai unica Camera rappresentativa della collettività popolare costituito dal potere di determinarsi in ordine ai tempi e ai modi di esame dei disegni di legge governativi, in ciò marcando quell’alterità e primazia rispetto al Governo (punto nodale della separazione dei poteri) che la riforma tende a scolorire in favore dell’organismo extra ordinem cui si è fatto cenno.

Né varrebbe opporre che la Camera potrebbe respingere la richiesta governativa e comunque il disegno di legge che ne è oggetto, poiché, a parte che è già in sé grave l’aver fatto spazio ad una simile intromissione, appare chiaro come la volontà sottesa all’art. 72 ultimo comma vada nel senso della presupposta immedesimazione organica della Camera legislativa con il Governo, tanto da consentire a questo di imputare a quella la responsabilità dei ritardi nell’attuazione del programma reso comune dall’espressione del voto di fiducia.

Tale contesto asseconda e in qualche modo legittima la tendenza del Governo a predisporre disegni di legge recanti norme “a maglie larghe” o addirittura “in bianco” che richiedono, a legge approvata, l’intervento del potere regolamentare dell’Esecutivo, il quale viene così ad appropriarsi sostanzialmente della funzione legislativa, demandatagli dalla maggioranza parlamentare della Camera, avvalendosi della tecnica di cui si è detto e rispetto alla quale si rivela strumentale il potere sollecitatorio di cui si è rapidamente discorso.

Tale disegno viene disvelato, per paradossale che possa sembrare, proprio dalla revisione dell’art. 77 Cost., che restringe il ricorso alla decretazione di urgenza, della quale è destinata a tener luogo, con ben più ampia latitudine di impiego, l’accelerazione della tempistica di cui all’art. 72 ultimo comma, come è reso ulteriormente evidente dall’intestazione del potere di conversione dei decreti legge — anche se vertenti su materia di competenza bicamerale — alla sola Camera dei deputati, cioè all’organo chiamato, ai sensi del novellato art. 72, ult. co., Cost., a corrispondere alle istanze acceleratorie formulate dal Governo per l’approvazione dei suoi ddl.

L’assetto prefigurato dalla riforma, caratterizzato da una forte inclinazione verso il predominio governativo, va poi combinato con la vigente disciplina, costituzionale ed eurounitaria, delle politiche finanziaria e di bilancio, che attribuisce agli organi di governo nazionali ed europei una marcata prevalenza nelle procedure decisionali, lasciando in sostanza al Parlamento la sola possibilità di una presa d’atto, se pure sotto forma di compartecipazione deliberativa di secondo grado e di carattere attuativo.

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