L’impressione resta quella di un governo che vive in una grande incertezza e che si prepara ad affrontare le inevitabili e prossime scadenze che lo attendono, dopo le vacanze natalizie, con apprensione. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, cerca di comunicare sicurezza con toni soft, non più gridati come faceva Matteo Renzi soprattutto negli ultimi giorni della battaglia referendaria. Maschera nei modi che gli sono possibili questa incertezza e apprensione, ma il contesto appare tutt’altro che facile e la sensazione è che si sia entrati nell’agonia di questo governo, nella discontinuità e nella continuità, comunque lo si voglia.



Nella consueta conferenza stampa di fine anno, arriva anche la “schiera” dei 41 sottosegretari e si aggiungeranno presto i viceministri. La si può rigirare in tutte le maniere questa storia del governo che ha una “discontinuità di toni” e una “continuità di lavoro”. L’impressione che balza agli occhi, quella che appare più chiara a tutti, è che si è di fronte a una fotocopia dell’esecutivo precedente con solo un’intestazione differente. Poi c’è il ventaglio dei problemi.



Il nuovo governo ha diversi fronti aperti, sia all’interno che all’estero. Può inciampare da un momento all’altro ed è difficile immaginare quali sbocchi possibili abbia (in caso di ostacolo non superato o problematico) se non quello di abdicare e ricorrere alle elezioni anticipate, nonostante le apprensioni del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Al momento, Gentiloni recita la sua parte con il garbo che gli è congeniale, forse anche per far dimenticare la débâcle referendaria. Eccolo quindi nel suo vademecum: “L’Italia deve andare a Bruxelles da fondatore della Comunità Europea, non da questuante”; con gli Stati Uniti, adesso che Donald Trump sta per subentrare ufficialmente a Barack Obama, i “rapporti rimangono saldi”: Mosca e Putin devono essere tenuti in considerazione, ma in Siria la soluzione passa solo attraverso dei negoziati.



Quali novità rivela, con questa apertura di discorso, Paolo Gentiloni? Detto fuori dai denti, si limita a elencare una serie di problemi che stanno creando soltanto dei grattacapi e non pare molto creativo politicamente. In effetti, ribadire che l’Italia è uno dei Paesi fondatori dell’Unione Europea è più che giusto, ma la posizione della Germania e della Banca centrale europea sulla questione di Monte dei Paschi di Siena, il valore aumentato della ricapitalizzazione, il giudizio del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, su tutto l’affare (quello di “opacità”), la politica economica italiana giudicata dai tedeschi con ironica sufficienza, non meritano solo la risposta “siamo dei fondatori”. Forse sarebbe arrivato il momento di un ripensamento generale e di una revisione generale dei rapporti e dei trattati europei. 

A questo punto, inutile nasconderlo, c’è un contenzioso che si è aperto e che è difficile ricomporre senza lacerazioni che verranno ricordate nel tempo. E tutto questo richiama, mette in luce, lo stato della comunità. Poi c’è l’accettazione di Donald Trump: e che altro potrebbe fare il governo Gentiloni? Fare il tifo per Hillary Clinton come fece a suo tempo Renzi? Infine la Russia di Putin, dove la considerazione del nostro presidente del Consiglio va letta come il timore del prossimo accordo tra Putin e Trump su una nuova politica mondiale che non dovrebbe “valorizzare” l’Europa, come in molti si illudono.

Interessante è vedere l’atteggiamento delle opposizioni nel Parlamento italiano. Durissimo e quasi irridente, tranne che in Forza Italia, dove si giudicano positivamente “soprattutto” i toni differenti da quelli precedenti. Qui si intravede forse un programma a lungo raggio, magari post-elettorale, con un ricorso anticipato e una legge elettorale improntata ad un ritorno al sistema proporzionale. Quindi, una possibile “grande coalizione”, che tagli fuori i grillini, i quali continuano a guidare l’opposizione più rigida e non perdono consensi nei sondaggi.

In questo contesto europeo e internazionale, c’è quindi il caldissimo fronte interno italiano. Le opposizioni si fanno forza di fronte ai dati economici, soprattutto a quelli sull’occupazione, che restano sempre troppo “interpretabili”. Con annessa, adesso, la questione dei “voucher”, diventati una palla al piede per come sono stati gestiti e per la quantità enorme che ne è stata usata nel solo 2016.

Paolo Gentiloni promette correzioni, più attenzione, ma l’impresa appare difficile, anche perché l’11 gennaio la Corte costituzionale deve decidere l’ammissibilità sul referendum per il Jobs Act, la legge sul lavoro, che non è risultata molto popolare, visti i risultati del referendum del 4 dicembre fra i giovani. In questo caso anche i voucher entrerebbero nel “calderone” di un’altra consultazione mal gestita. Che se fosse persa, diventerebbe una sorta di “mazzata” terribile per il Partito democratico di Matteo Renzi. Poi, non va dimenticata la riunione della Consulta, il 24 gennaio, sulla legge elettorale, quell’Italicum che Renzi sbandierava come una novità assoluta nell’Occidente democratico e che oggi non difende più nessuno.

Se si aggiungono a queste scadenze da brividi, l’impegno per le riforme “in perfetta continuità con il governo Renzi”, il percorso di Gentiloni si fa molto difficile e complicato. In agenda c’è il “completamento delle riforme”. “Vaste programme”, direbbe il generale De Gaulle. Bisogna infatti affrontare il sempiterno problema delle crescita, della ripresa, del Sud, dell’occupazione giovanile.

Non sarà un inverno facile e la primavera si presenta all’orizzonte piuttosto “rovente”. In definitiva, per uscire dalle metafore, vale la pena di dire che Gentiloni sta diventando il parafulmine di un governo e di una coalizione che ha perso la sua scommessa. Ora si appresta a una scalata di sesto grado. E sarà un’impresa durissima arrivare in cima.