“La mia esperienza di governo termina qui”, dice il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, mascherando a fatica un lampo di commozione sul volto. Il 5 dicembre è cominciato da appena venticinque minuti e adesso comincia il gran ballo finale della crisi italiana, cominciata nel 1992, anche se qualcuno vuole evitare, con la consueta disinvoltura, i salti storici che invece, secondo antichi brocardi di saggezza, sono deleteri. Per comprendere la realtà bisogna ricordare sempre la grande lezione della “historia non facit saltus”. Chi non rispetta i tempi della storia alla fine ne viene inevitabilmente travolto.



Il premier dalla sala di Palazzo Chigi ha parlato al Paese, in un’atmosfera di drammatica delusione e sconfitta. Ci ha messo la faccia, come si usa dire, ma l’impressione è che di fronte ai numeri impietosi del referendum la cosiddetta “accozzaglia” — come Renzi l’aveva chiamata — non ha vinto, ma ha letteralmente stravinto, in un modo impietoso. E dopo tonnellate di arroganza e superficiale sicurezza, il minimo che si poteva fare era quella di andare al microfono delle tv e ammettere di essere stato centrato da un missile a “testata multipla”.



Le proiezioni su un campione dell’80 per cento portano il “No” alla riforma costituzionale vicino al 60 per cento, un 59,5 per l’esattezza e solo un 40,5 al Sì, lanciato da un anno come una panacea, una sorta di rimedio universale contro tutti i mali italiani, da Matteo Renzi e da Maria Elena Boschi. E c’è un problema ulteriore che condanna il governo, senza mezzi termini: questa volta gli italiani non sono stati a casa, non hanno disertato le urne, ma superando le percentuali delle europee e avvicinandosi alla percentuale delle elezioni politiche del 2013, sono andati a votare al 68 per cento. Quindi un’affluenza alta per questi tempi e avendo di fronte un simil-referendum che pareva un cruciverba para-giuridico.



Sembra quasi che gli italiani siano andarti a votare apposta, a guardare bene, non tanto per difendere l’intoccabilità di una Costituzione, ma per bocciare una linea politica fallimentare e disastrosa. Sono andati a votare per denunciare tutto il profondo malessere sociale italiano, nonostante i “salti mortali” sui numeri mensili e trimestrali del Pil, della disoccupazione, della crescita, dell’export, della domanda interna e del debito.

Si cade probabilmente in errore ritenendo che contro il Sì abbia vinto un movimento politico contrario, o un progetto alternativo a questo governo, che ha il perno nel centrosinistra e in alleati imbarazzanti da Alfano a Verdini. Oppure un movimento che ha voluto difendere la Costituzione a tutti i costi. Guardando l’affluenza al voto, guardando alla diffusione del No sul territorio nazionale ( il Sì sembra che abbia vinto solo in Trentino-Alto Adige, Toscana ed Emilia-Romagna), si ha la netta sensazione che a venir bocciata sia un’intera classe dirigente che non riesce a elaborare una linea politica. 

Chi oggi raccoglie la protesta degli italiani deve per prima cosa cambiare radicalmente politica economica e sociale, perché altrimenti la protesta e la contestazione anche a una cosiddetta “nuova classe politica”, non cambierà e non diminuirà affatto. Proviamo a chiedere agli italiani se di fronte a questo tasso di disoccupazione e a questa pressione fiscale, sono più interessati all’abolizione del Cnel. A ben pensarci c’è da ridere amaramente.

Forse il presidente del Consiglio e i suoi ministri non hanno ancora compreso che una politica economica fatta in questo modo e dopo quasi dieci anni di crisi economica, i “super-analisti” del “super”, del “turbo” e dell’ordo-capitalismo non riescono a risolvere nulla.

Come con la Brexit e come con l’elezione di Donald Trump, la stragrande maggioranza di questi analisti, l’intellighenzia mediatica ed economica ha preso degli sfondoni incredibili. Ma in questo caso c’è un fatto in più. Se per la Brexit e per Trump si giocava sul “filo del rasoio”, qui la forbice tra Sì e No è stata molto più alta e più netta. Quasi impressionante e impietosa, nel rapporto 40-60, rispetto a tutte le svolte che si sono viste in questo anno in giro per il mondo.

Mettere in fila tutti gli sconfitti di questa campagna referendaria è un’impresa improbabile, che porterebbe via diverse pagine di testo: se le agenzie di rating e le banche d’affari non ne azzeccano più una nel campo delle previsioni politiche (ma è anche un’antica consuetudine), la truppa dei famosi menagrami dell’austerity (tranne il bastian contrario Mario Monti per ragioni non chiare) hanno tutti contribuito alla sconfitta clamorosa: Schäuble, il croupier lussemburghese Juncker, il famoso Obama che deve essere a questo punto esorcizzato, e poi tutti gli esponenti della finanza creativa, con i giornali e le televisioni a fare da cornice e da supporto. Senza mai dimenticare l’apporto determinante della “riformatrice” Elsa Fornero, la ciliegina sulla torta del Sì.

Dicevamo all’inizio che il risultato clamoroso di questo referendum apre il “gran ballo finale” della crisi italiana. In questa notte, che lascia un po’ tutti stupiti, ci sono le televisioni che in strani talk show stanno già progettando i futuri scenari della crisi italiana. Il passaggio al Quirinale poi il voto? Mah! Il passaggio al Quirinale e poi l’incarico a Franceschini, il “basista” di turno dopo un fanfaniano come ai tempi della Dc? Oppure un doroteo come l’attuale ministro degli Esteri, Gentiloni? L’impressione è che i famosi analisti stiano vivendo ancora su qualche luna di Giove, lontano dalla nostra Terra, tutta azzurra. 

Chi ha vinto questo referendum sono gli italiani sfiniti, stanchi, ma anche maturi e, dopo la delusione del Renzi, rivelatosi veramente in quest’occasione il “Bomba”, capaci anche di vivere la prima fase della farsa della grande crisi. E’ inevitabile che, in un contesto internazionale e in particolare europeo di questo tipo, con un Paese che non è in grado nei prossimi mesi di rilanciare gli investimenti pubblici, di adottare misure shock sulle tasse, che viene da anni di privatizzazioni programmate (“per essere moderni”) dai guru degli anni Novanta (Amato, Ciampi, Prodi, Draghi), che ha problemi di affidabilità delle banche che stanno per esplodere, il rischio è che si passi alla seconda fase della farsa della crisi cominciata nel 1992. Appunto la crisi finale. Chissà martedì che cosa accadrà nella direzione del Pd a Renzi. Vedremo i fuochi artificiali.

In tutti i casi la portata della crisi italiana, cominciata tanti anni fa, sta proprio nei numeri impietosi di questo referendum: il 60 per cento dice no. E probabilmente gli italiani sanno già che dovranno affrontare il dilettantismo dei grillini, le “follie” leghiste, la perenne inconsistenza berlusconiana. Attenzione agli sbandamenti sociali, ci vuole altro che la faciloneria dei principianti e la supponenza di chi bolla tutti con il populismo. Il momento questa volta è veramente delicato e problematico.

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