A leggere i titoli di alcuni giornali e qualche commento, il voto referendario sembrerebbe essersi trattato di un voto “di pancia” (in opposto alla lucida razionalità austriaca) con effetti se non distruttivi, certamente pericolosi (salto nel buio, shock di Roma, crisi al buio, eccetera).
Singolare ricostruzione.
Gli effetti “demolitori”, se così si vuol chiamare la scelta di Renzi di rassegnare le dimissioni, si devono all’inedito ruolo che lo stesso Renzi — e con lui il suo esecutivo — ha svolto nell’affaire della riforma, caricando il voto di significato fiduciario per chiederne la verifica al popolo, nella pretesa di poter supplire in questo modo al circuito rappresentativo parlamentare.
Lunedì mattina gli scenari catastrofici provenivano dal “coro europeo”, misto di soggetti più o meno autorevoli (tra i quali i consueti, anonimi “alti funzionari” di Bruxelles), che, con indebite ingerenze, preconizzavano immediati esiti nefasti: ma il “day after” finanziario si è subito rivelato ben lontano da quei foschi tableaux. L’insistenza dei corifei segnala semmai un punto del quale si deve far debito conto, ma in direzione opposta e comunque diversa rispetto a quella praticata dai media: vale a dire l’espresso condizionamento dell’esercizio (anche) dei diritti politici da parte di gruppi di pressione internazionali — rappresentativi, per dirla in sintesi, delle stesse istituzioni che si erano rese creditrici dell’approvazione della riforma — in forza dei poteri di determinare variabili essenziali della politica nazionale. Poteri di cui tali istituzioni godono in ragione delle ripetute cessioni di sovranità nazionale alla quale lo Stato italiano ha acconsentito senza mai interpellare il popolo sovrano (si ricordino le vicende del 2011).
Sgomberato il campo da questi “equivoci”, vale la pena di rammentare, in primo luogo, che la funzione interdittiva è propria del referendum di cui all’articolo 138 della Costituzione, che è forma di esercizio diretto della sovranità popolare, in quel suo aspetto davvero nevralgico del controllo, su specifico quesito, del rappresentante sul rappresentato. È del resto preoccupante l’idea, che va sempre più diffondendosi nel dibattito pubblico e che la legge Renzi-Boschi respinta dal popolo faceva propria, secondo cui la democrazia sarebbe tale solo quando la collettività esprime consenso alle scelte degli apparati governativi, mentre il dissenso sarebbe unicamente pietra d’inciampo.
Tesi che, in queste ore, si esprime anche attraverso la ripetizione di un tema tutt’altro che nuovo. Il voto referendario sarebbe stato espresso senza ragionata cognizione del suo oggetto: il che, se fosse vero, varrebbe soltanto a dimostrare il mancato soddisfacimento di quei doveri di informazione dei quali si parla molto più di quanto non sia reale il loro esercizio.
Si deve invece muovere da un assunto esattamente opposto, che del resto trova riscontro nell’ampiezza della partecipazione alla tornata referendaria, peraltro, com’è noto, non richiesta dall’articolo 138: che gli italiani abbiano espresso la loro volontà in piena conoscenza della posta in gioco.
Su questa base, si delinea un quadro che rivela i profili positivi e costruttivi del ricorso al voto popolare.
In primo luogo, la rilegittimazione della Carta del 1948, un fatto attestato dall’ampiezza del numero dei votanti, dalla loro consistenza generazionale e dalla distribuzione territoriale. La legge Renzi-Boschi era il primo tentativo di riforma organica della vigente Costituzione: il quesito referendario aveva pertanto un oggettivo valore istituzionale, che da lontano ricorda quello del 1946. Negare assenso alla legge approvata dalle Camere vuol dire dunque apportare rinnovato sostegno alle scelte compiute dall’Assemblea costituente; manifestare cioè, in forma solenne, quel fondamentale consenso in senso lato contrattuale che già emerge mediante il canale diffuso che fu detto del “plebiscito quotidiano”, nonché, nel contempo, voler confermare il popolo nella sua posizione di soggetto costituzionale essenziale.
Il disegno riformatore comportava una riduzione della partecipazione democratica, eliminando la rappresentatività di una delle due Camere elettive (ed è curioso che proprio il sistema delle pronunzie multiple — i due rami del Parlamento e il popolo — sullo stesso oggetto abbia decretato la fine di una legge che ne assumeva l’inutilità), diminuendo le prerogative del Parlamento in funzione di rappresentante, soprattutto quanto al controllo sul Governo e formando (in modo obliquo e dissimulato) un “blocco di comando” intorno al Premier, che avrebbe dominato nell’Esecutivo e alla Camera dei deputati (e, in fondo, la condotta del Governo oggi dimissionario, spesso al limite della legittimità costituzionale, aveva già dato prova in tal senso).
La risposta popolare è stata chiara, per la sua irrefutabile univocità. Con un monito: riforme così ampie, pur volendole ritenere ammissibili, non possono passare per la cruna dell’articolo 138 della Costituzione, pensato per provvedere a revisioni puntuali, tanto più in ragione del fatto che l’attuale formulazione della legge che disciplina il referendum (352/1970) non prevede (comprensibilmente, per l’epoca della sua approvazione) alcuno strumento che eviti (o riduca il rischio) di mortificare, in simili ipotesi, la partecipazione popolare.
Si è scritto, poi, sui quotidiani nazionali che l’Europa (intesa come assetto giuridico) è stata tenuta fuori dal dibattito referendario (A. Bonanni, “Lo shock di Roma si abbatte sulla Ue”, Repubblica del 5 dicembre 2016). Percezione “epidermicamente” vera, che tocca un tema sul quale confido di tornare su queste pagine nei prossimi giorni. Eppure le questioni eurounitarie hanno giocato un ruolo non secondario nell’orientare il corpo elettorale. La riforma voleva chiudere quel ciclo di profonde trasformazioni istituzionali apertosi trent’anni or sono con l’Atto Unico Europeo (1986) che, passando per il Trattato di Maastricht, aveva trovato nella “silenziosa” revisione degli articoli 81, 97 e 119 della Costituzione (legge costituzionale 1/2012) un primo momento di “razionalizzazione”: lo Stato è stato progressivamente spogliato di funzioni sovrane e sottomesso alla cosiddetta “istituzione mercato”, secondo i vincoli costrittivi europei, con corrispondente scolorimento del suo primario ufficio di strumento di esercizio della sovranità popolare.
Si trattava, allora, di completare l’opera accorciando, per così dire, la catena di comando che lega Roma a Bruxelles e conformando la struttura dei pubblici poteri a quel che si riteneva (o si voleva che) fosse il residuo spazio di autodeterminazione nazionale.
Gli italiani hanno opposto un vigoroso limite a questa volontà, laddove l’apparato statuale — diversamente da quanto è accaduto in altri Paesi membri dell’Ue — non ha presidiato con la dovuta attenzione quei confini che, pure, l’articolo 11 della Costituzione individua sia nella permanenza della sovranità (della quale sono ammesse limitazioni e non atti di abdicazione), sia nella sussistenza di condizioni di parità con gli altri Stati.
Il voto di domenica scorsa ha espresso, infine, una sanzione nei riguardi della maggioranza parlamentare e del Governo, quali promotori della riforma, giudicando che siano andati al di là dei loro poteri.