Appena è stato chiaro l’esito del referendum costituzionale del 4 dicembre, la classe politica si è divisa in due tronconi. Quello, minoritario e sconfitto, che aveva caldeggiato il Sì in ogni modo, si è arroccato nel ruolo dei migliori e degli incompresi, di chi proponeva al Paese la miglior ricetta possibile per cambiare senza essere ascoltato da un’opinione pubblica incosciente e ignorante. Quello, maggioritario ed eterogeneo, che aveva appoggiato il No, a volte platealmente, gongola soddisfatto e ora plaude alla difesa della Costituzione, ora scaglia l’anatema contro l’esecutivo morente. Eppure, quando tutto sembra essere stato archiviato, i numeri del referendum continuano a parlare. E bisogna provare ad ascoltarli.



Più di due italiani su tre hanno votato: più di tutte le recenti consultazioni referendarie, più di alcune elezioni amministrative, dove pure gli interessi di campanile spesso resuscitano (alla lettera) anche i morti dai registri elettorali. Voglia di esprimersi e polarizzazione del consenso sono tipiche di anni in cui la partecipazione politica si arresta e viene ostruita da giochi politici che sembrano distanti e, nei fatti, lo sono. È giuridicamente sbagliato sostenere che Berlusconi sia stato l’ultimo presidente del Consiglio eletto, visto che elezione diretta non ve n’è e ogni governo deve sempre misurare la propria rappresentatività nel rapporto fiduciario con le Camere. È inconfutabile, però, che il Pdl nel 2008 avesse vinto le elezioni. Valico duro da cui non è passato Monti (accolto come un salvatore e pochi mesi dopo condannato col suo partito Scelta Civica all’irrilevanza); ci era passato Bersani, che le elezioni le aveva vinte per modo di dire, ottenendo una pingue maggioranza alla Camera ma non al Senato a causa di una legge opinabile e con profili di incostituzionalità. Meno che mai vi era passato Enrico Letta, cui era stato dato mandato di riformare riunendo i cocci: un ossimoro, per una società politica come quella italiana, che accettava il consociativismo, ma che col bipolarismo di fatto degli ultimi vent’anni si è dimostrata immatura per i governi di coalizione. Renzi ancor più: mai avuto il test di elezioni politiche. Aveva perso — neanche male — le primarie del suo partito, le ha rivinte alla grande da venerato guastafeste, ha sbancato alle europee, saldando insieme il voto tradizionale della sinistra moderata e postcomunista e consensi di marca forzista in libera uscita. Le elezioni politiche da candidato non le ha mai fatte.



Tutta Italia ha votato prevalentemente il No. Il voto riformatore del ceto intellettuale settentrionale non è andato al Sì, certamente non all’umanità. Il Sì ha prevalso solo in Toscana, terra che ha sempre assecondato il vertice del Pci-Pds-Ds e oggi Pd, dove Renzi ha dato il là alla sua scalata al cielo, e, pur con uno score meno evidente, in Emilia-Romagna. 

Alle due roccaforti della rappresentanza partitica della sinistra italiana va aggiunto il Trentino Alto Adige, dove un certo peso lo ha il fatto che la riforma proposta agli elettori intendesse tagliare le unghie alle spese regionali, ma conservando il ruolo delle province autonome di Trento e Bolzano, in anni in cui, invece, le altre province di “diritto comune” sono state oggetto di attacchi, congetture, condanne mediatiche e chi più ne ha più ne metta.



Il Sud ha tributato al No percentuali più che bulgare. Montanelli direbbe che è conseguenza della fisionomia politica meridionale, tendenzialmente filogovernativa (come se il perfido elettore sudista, in questo caso, si aspettasse la caduta del Re). Bocca commenterebbe diffusamente sulla natura caotica, disordinata e disfattista della società meridionale. Né l’uno né l’altro sarebbero, forse, troppo in torto, ma non basterebbe a spiegare come mai in Sardegna e in Sicilia il No abbia quasi ottenuto tre voti validi sui quattro. È una parte di Paese, da Roma in giù e soprattutto quella staccata dal Continente, che si sente abbandonata. Quando può votare di pancia, per umore o per fastidio (due sentimenti sacrosanti in terre mal amministrate), lo fa senza problemi e senza remore. Neanche in Campania, nonostante la verve stizzosa e stizzita del governatore De Luca, il Sì è decollato. E va detto che quel modo di fare campagna elettorale, quasi da mobilitatori di masse picchiando il pugno sul tavolo, ha forse fatto il suo tempo: un conto sono le comunali e le regionali, ben altro voti di carattere nazionale e il cui contenuto sia la revisione costituzionale.

Gli italiani si dimostrano stranamente affezionati a una Costituzione che conoscono poco e che normalmente non sospingono la politica ad attuare. Tendono a respingere le modifiche in blocco, al massimo votano favorevolmente quelle circostanziate. L’epica dello stravolgimento non piace ed è obiettivamente dannosa se, per cavalcare toni epici e barocchi, appunto, si rischia di venire fraintesi. Altro dato interessante. Quando Berlusconi vinceva le elezioni, ma il voto all’estero non lo premiava con la stessa grancassa, gli intellettuali elogiavano l’opinione pubblica dei “connazionali fuorisede”: più istruiti, più liberal, più civili. Oggi, il voto estero, pur da Renzi così platealmente accarezzato, ha dato ragione a metà al segretario del Pd: il Sì aveva meno preconcetti ideologici e più voci a favore, ma dir che abbia sfondato sarebbe quasi da iperbole omerica.

Ora partiranno le analisi sulle fasce elettorali. Cercheranno di spiegare l’orientamento dei precari della conoscenza, così ostili: diranno che si sono opposti perché la vita non ha dato loro di meglio. Proveranno a giustificare il voltafaccia dei giovani e le aperture dei pensionati. 

Il ruolo (importantissimo, quanto, in realtà, sovrastimato) delle mobilitazioni intellettuali, per l’uno e per l’altro fronte. E magari delle accademie, dei salotti, dei circoli … Ma non saranno esercizi troppo utili. L’Italia ha bisogno di riforme strutturali, comportamentali e culturali prima che giuridiche. Ed è tempo di fare per bene e, magari, riscoprire le virtù di un serio e adeguato riformismo legislativo a Costituzione invariata. Nel resto del mondo esiste, potremmo provare.