Secondo le regole di una repubblica parlamentare se c’è un contrasto tra presidente della Repubblica e presidente del Consiglio, va a casa il presidente del Consiglio. Non va a casa il presidente della Repubblica. L’approccio ricattatorio e minaccioso con cui Matteo Renzi e i suoi subornati stanno affrontando la crisi di governo la dice lunga sul perché volessero cambiare la Costituzione orientandola verso una “democrazia decidente”. La controprova viene dalla riunione della direzione nazionale Pd di ieri. Analisi del voto a cura di Matteo Renzi. Interventi: Matteo Renzi. Repliche: Matteo Renzi. Tesi: Mattarella non sa che fare; Matteo Renzi deve aiutarlo. E il Pd? Zitto e mosca. 



Opinioni in libertà? Michele Emiliano: “Non è stato dato alcuno spazio al dibattito durante la direzione nazionale. Convocare centinaia di persone da tutta l’Italia per confezionare una scena del genere è una mortificazione della democrazia interna e della dignità del partito. Sono senza parole”. 



È indubbio che la scelta del segretario dem ha spiazzato tutti, specie se si fa un salto in quel passato intriso di democrazia sbandierata a ogni piè sospinto e rivendicata come diversità rispetto agli altri partiti. “Voglio fare della direzione un luogo vero, non o così o pomì, un luogo in cui si discute davvero ma quando si è deciso, quella linea non impegna parte del Pd ma il Pd”, disse Renzi in direzione il 20 gennaio 2014.

Concetto ribadito nel luglio di quest’anno durante lo stesso consesso con tanto di valorizzazione delle differenze di pensiero: “Dico con molta sincerità quanto ho apprezzato il dibattito, che è uscito dai cliché con cui viene rappresentata la direzione. Due ministri, Dario Franceschini e Graziano Delrio, hanno discusso di legge elettorale avendo opinioni diverse, due personalità di spicco della minoranza hanno contestato il racconto che ho fatto ed è interessante perché mi sarei aspettato più una critica sui contenuti politici, le critiche più dure al governo nel senso di contenuti sono arrivati da due esponenti della maggioranza, Piero Fassino ed Enzo De Luca, con due interventi molto seri e significativi”.



Due mesi fa, esattamente il 10 ottobre, Renzi poi rivendicava con orgoglio: “Questa è la direzione numero 31 dal gennaio 2014: è stata riunita in tutti i passaggi chiave. Abbiamo scelto la democrazia interna e non i caminetti dei big o presunti tali. Lo avevamo promesso nelle primarie e l’impegno congressuale vale più dei mal di pancia dei leader quindi parliamo qui”. 

È evidente che ora la musica è cambiata. Non è più tempo di cori polifonici. Ma solo di un mesto e solitario de profundis della democrazia interna. E del resto questa agonia della democrazia della diciassettesima legislatura altro non fa che echeggiare il lungo tormentone della faida interna del Pd. 

Prima l’eliminazione di Marini candidato a presidente della Repubblica da parte dei renziani, poi l’acclamazione di Prodi seguita dal suo siluramento ad opera di milizie renzian-dalemiane per far cadere Bersani e poi, con comodo, lo scannamento di Letta ad opera di Matteo stesso con la complicità di Napolitano e Franceschini. E infine il quesito: chi scegliamo di far fuori tra Renzi e Mattarella? Lo statista di Rignano non ha dubbi: “mors tua vita mea”. Il canuto abitante del colle più alto si schermisce, ma ha in mente l’Italia. E dovrà sciogliere il nodo: l’Italia che ha bocciato Renzi può reggere senza conflitto un reincarico al pifferaio fiorentino, per di più estorto col veleno e col pugnale del risentimento di chi, persa la partita, ha deciso di dar fuoco allo stadio purché nessuno venga a conoscenza del risultato? E Berlusconi potrebbe, in un soprassalto di responsabilità, far da sponda a un Mattarella assediato dai drammi interni del Pd che altro non fanno se non tenere in ostaggio il paese dal 2013? 

Ah, a proposito: Renzi si è dimesso ma chissà perché non ci crede nessuno. Neanche il canuto Sergio da Castellammare del Golfo.